Di Elisa Sorrentino
Non ha sicuramente bisogno di presentazioni Manuela Leggeri, ex capitana della Nazionale italiana, che ha deciso di chiudere la carriera azzurra disputando l’ultima partita il 27 novembre 2004, in occasione dell’All Star Game di Pesaro con 326 presenze all’attivo. Campionessa non solo in campo ma anche fuori, che ci ha fatto sognare in quel Mondiale del 2002 e regalato tante emozioni anche con le maglie dei club. Oggi ha lasciato il volley giocato per diventare allenatrice e portare la propria esperienza alle nuove “promesse” della pallavolo!
Sarà davvero un’estate lunga. Come si affrontano così tanti impegni?
“Ho fatto 10 anni in Nazionale. Diciamo che sicuramente lo Staff tecnico saprà gestire al meglio la situazione. Innanzitutto bisogna porsi degli obiettivi che di sicuro in primis saranno i giochi del Mediterraneo e il Mondiale, quindi arrivare al top a quelle manifestazioni, poi è normale che nell’arco dell’estate ci siano dei momenti in cui potremo vedere una nazionale un po’ più stanca, questo proprio in funzione degli obiettivi primari”.
Obiettivi primari che quest’anno saranno i Campionati del Mondo che si giocheranno in Giappone dal 30 settembre al 21 ottobre. Dove può arrivare questa nazionale?
“Io auguro a tutte loro di arrivare più in alto possibile e di pensare partita dopo partita. Non saprei dire dove può arrivare questa Nazionale perché è una squadra che deve ancora formarsi e lo farà nel corso di tutta l’estate con i vari tornei che fortunatamente avranno davanti. Si confronteranno anche con delle grandi squadre, quindi sicuramente cresceranno e spero che possano arrivare più in alto possibile e raggiungere il risultato che abbiamo raggiunto noi”.
Italia sul tetto del Mondo nel 2002. Quali ricordi ed emozioni porta dietro di quel Mondiale?
“Ricordo tutto. Ricordo davvero tutto. Dalla prima fase, dalla prima partita all’ultima, ma credo che quel qualcosa in più che è scattato in noi nel credere nei nostri mezzi e nelle nostre potenzialità, è arrivato nel secondo girone, dove appunto rischiavamo di rimanere fuori dalle prime otto perché avevamo perso due partite contro Cuba e Russia. Invece, grazie anche ai risultati dagli altri campi, siamo riuscite ad entrare nelle prime otto e li è scattato quel qualcosa che non saprei neanche spiegare. E’ venuto fuori il nostro motto che era appunto “unite, vittoria” e siamo arrivate sul gradino più alto. Sicuramente, nessuno avrebbe puntato su di noi, e forse neanche la Cina che aveva fatto dei calcoli proprio per incontrare noi in semifinale, eppure abbiamo vinto con loro 3-1 e poi 3-2 con gli Stati Uniti. Tutti ci dicevano, che avevamo vinto perché mancava Keba Phipps, ma noi l’abbiamo saputo una volta entrate in campo, avevamo comunque preparato la partita con lei in squadra. Keba non c’era ma questo non toglie nulla a chi l’aveva sostituita, Tara Cross, che aveva fatto la sua partita. Noi però avevamo una Elisa Togut che è stata davvero stratosferica, non per niente premiata come Miglior Giocatrice del Mondiale. Poi eravamo davvero squadra e gruppo, fattori fondamentali perché essere squadra è una cosa ma essere anche un gruppo e quindi andare tutte d’accordo, essere tutte all’unisono, tutte in sintonia, è un’altra. Non solo noi ragazze ma anche tutto lo staff tecnico, eravamo davvero un tutt’uno. Questo è un valore aggiunto e credo sia stato la nostra forza”.
Cosa ha provato quando è salita sul podio e le hanno messo quella medaglia d’oro al collo?
“Sono state varie le emozioni, perché già veder arrivare la coppa verso di te ed essere stata la prima a sollevarla è stata un’emozione veramente indescrivibile anche perché come hai ricordato te eravamo a Berlino e c’erano tantissimi italiani presenti. La medaglia, l’abbraccio di tutte noi, il cantare l’inno a squarciagola e vedere la bandiera tricolore salire più in alto di tutte è una cosa che non si può descrivere. Non so a cosa paragonarlo ma sicuramente una gran bella emozione”.
Lei è stata il capitano di quella squadra: cosa significa essere capitano della Nazionale, quali caratteristiche deve avere?
“Si ho avuto la fortuna di essere capitano e sono sempre stata me stessa. Sono sempre stata un atleta che tutti hanno potuto vedere sul campo, un po’ aggressiva, un po’ “cattiva”. Non ci sono caratteristiche particolari per essere un capitano perché di solito il capitano è il leader della squadra, ma io non sono d’accordo perché secondo me il leader sono tutti, specialmente in una squadra che raggiunge questi risultati. Io sono sempre stata me stessa, ripeto, con o senza fascetta quindi non so dirti cosa debba avere un capitano sinceramente. So solo che noi come squadra abbiamo sempre affrontato qualsiasi problema tutte insieme, se c’era qualcosa che non andava ne abbiamo parlato a viso aperto e questa è stata una marcia in più. Si dice spesso che le donne sono diverse dagli uomini, forse è vero, però in quel caso li eravamo uguali, nel senso che si dice sempre che la donna se litiga se la lega al dito, se la porta in palestra e invece noi no. Siamo state veramente brave perché qualsiasi cosa non andasse, ci siamo sempre affrontate a muso a muso, abbiamo sempre risolto la cosa e anzi questa cosa qui ci ha fatto maturare e ci ha fatto diventare, oltre che delle brave atlete, anche delle donne con la D maiuscola”.
Tante le emozioni che il volley le ha regalato, si sente dalle sue parole. Che cosa ha trasmesso la pallavolo a Manuela Leggeri e cosa pensa di avere dato a questo sport?
“A me la pallavolo ha dato tanto perché io all’età di 15 anni ero fuori casa. Ero una ragazzina, un’adolescente molto introversa, chiusa, la pallavolo invece mi ha dato modo di essere estroversa, di trovarmi bene in mezzo alla gente, mi ha formato proprio come carattere, mi ha cresciuto. Quando si dice che lo sport è vita… io ci credo, magari qualcuno no ma io si! Perché lo sport insegna tantissimo, specialmente uno di squadra dove prima di superare gli avversari ti trovi ad affrontare i propri limiti e a superarli, ti ritrovi ad avere delle regole da rispettare, la condivisione con le proprie compagne nel bene e nel male, il rispetto quindi reciproco, il rispetto dell’avversario, lo spirito di sacrificio perché comunque hai un obiettivo, hai un sogno che vuoi realizzare e quindi tutto il resto diventa quasi un contorno. Per me non esistevano gite, le uscite con gli amici, io vivevo in funzione della pallavolo. C’è poi lo spirito di adattamento perché ogni situazione è diversa dall’altra, e se hai la fortuna di trovarsi in nazionale, di vivere altre culture ed è bellissimo questo. Ti da modo di conoscere tanta gente, tante persone alcune delle quali diventano fondamentali, dei pilastri, delle ancore nella propria vita. La pallavolo a me davvero ha dato tanto, mi ha formato come donna, come persona e come atleta. Se oggi sono quella che sono lo devo alla pallavolo”.
E allora concludiamo questa intervista dando un consiglio alle ragazze di questa “nuova” nazionale e facendo loro un “in bocca al lupo”
“Un in bocca al lupo enorme e soprattutto credere nei sogni, perché i sogni si possono realizzare. Non mollare mai anche quando la partita sembra ormai persa. Ricordiamoci sempre che finché l’arbitro non fischia l’ultimo punto tutto è possibile, quindi credere veramente nei propri mezzi e saper affrontare le difficoltà che comunque ci saranno, però mai perdere di vista il proprio traguardo”.