Il ruolo dello sport nell’emancipazione femminile

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Di Redazione

Qual è il ruolo dello sport nella lunga marcia verso la totale emancipazione delle donne? È questa la domanda che ha dato vita ad un workshop tenutosi al Parlamento Europeo di Bruxelles.

L’evento si è fregiato della partecipazione di numerose ex atlete che, dopo aver scritto pagine importanti nella storia dello sport, ora ricoprono rilevanti cariche di carattere più “politico”: hanno fornito il proprio contributo Nadine Kessler, ex calciatrice tedesca e pallone d’oro del 2014, oggi a capo del calcio femminile alla UEFA; Katie Sadleir, ex professionista di nuoto sincronizzato neozelandese, dal 2016 General Manager di World Rugby; e Frédérique Jossinet, pluri-medagliata judoka francese, che da diversi anni guida il movimento calcistico femminile in Francia.

Il comune denominatore dei loro interventi è stato essenzialmente uno: nonostante gli innegabili progressi, e la crescente attenzione della politica verso la parità di genere, il traguardo è ancora molto lontano. Ed è vero: Pierre de Coubertin, “padre” delle Olimpiadi moderne, nel 1896, ad Atene, vietò alle donne di partecipare alle competizioni perché la loro presenza sarebbe stata “poco pratica, priva di interesse, antiestetica e scorretta”. Un pensiero che tradisce la sua citazione più famosa: “L’importante non è vincere, ma partecipare”. È così iniziato un lungo percorso che è terminato solamente con Londra 2012, dove, con l’introduzione della Boxe femminile, le donne hanno finalmente preso parte a tutte le discipline olimpiche.

Almeno potenzialmente, perché, purtroppo, ci sono ancora alcuni Paesi, soprattutto in Medio Oriente, in cui la pratica sportiva femminile, per quanto non espressamente vietata per legge, è osteggiata dai precetti più radicali. Una delle situazioni più difficili si vive in Arabia Saudita, dove il sistema assegna un tutore di sesso maschile alla donna, che può essere il padre, il marito, il fratello o persino il figlio, purché maschio, che di fatto nega qualsiasi libertà di scelta individuale. La speranza di rivalsa è riposta in progetti come “Bliss Run”, un gruppo di ragazze coraggiose che da alcuni mesi si allena ogni settimana per le strade di Gedda, andando contro i dettami della dottrina wahabita. Un modo efficace per ispirare le altre donne a esprimere se stesse e a non reprimere le proprie passioni.

LA DISCRIMINAZIONE IN OCCIDENTE

La discriminazione, però, non risparmia l’occidente, sebbene sia presente in maniera più sottile e, per certi versi, subdola. Durante l’evento è stato ricordato un caso di alcune settimane fa salito alla ribalta delle cronache: due radiocronisti inglesi erano stati sospesi dopo che si erano abbandonati a ironie di ogni sorta a proposito di una guardalinee rea, a loro avviso, di non aver colto il fuorigioco, perché è risaputo che le donne non lo capiscono. Peccato che la moviola abbia dimostrato l’esatto contrario…

IL CASO ITALIANO

Tiziana Beghin (nella foto), vicepresidente dell’Intergruppo Sport al Parlamento europeo e deputata del MoVimento 5 Stelle, ha parlato anche di un problema tutto italiano: una legge del 1981, mai aggiornata, non prevede la possibilità per le donne di essere riconosciute come sportive professioniste. Come ricorda Beghin, non si tratta di una mera questione retorica: professionismo significa accedere alle garanzie previdenziali, sanitarie, contrattuali previste per i lavoratori del settore, compreso il TFR a fine contratto.

IL LATO OSCURO DELLO SPORT

Il rapporto tra le molestie sessuali e lo sport è ancora poco indagato, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. Tine Vertommen, docente di Scienze Applicate alla Thomas More University, ha metaforicamente identificato la situazione con un iceberg: sotto c’è molto di più rispetto a quanto non emerga in superficie. Il tema è stato ulteriormente approfondito grazie alla coraggiosa testimonianza di Gloria Viseras, ex ginnasta spagnola ripetutamente abusata dall’allenatore della nazionale quando era soltanto una bambina. Il suo racconto, estremamente toccante, ha impietrito i presenti, e ha fornito alla dottoressa Vertommen l’assist per spingere la platea a prestare la massima attenzione ai comportamenti dei propri figli: la domanda non deve essere “perché non parlano?”, ma “perché non ascoltiamo?”. Un monito rivolto a tutti: alle famiglie, alle società sportive, e alla politica.

(Fonte: sporteconomy.it)

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