Di Stefano Benzi
Andando in Brasile ho capito che cos’è il Mal d’Africa. Sono stato anche in Africa ma posso garantire che la saudade è molto peggio. Ed è un falso storico che la saudade colpisca solo i brasiliani. Non avete idea di quanti italiani, tedeschi, olandesi, americani, giapponesi o coreani restino vittime di questa forma da dipendenza che il Brasile ti attacca e non si scolla più.
Sono stato in Brasile in tutto otto volte, tante: le prime due per lavoro. Prima per accompagnare un gruppo di operatori turistici italiani, poi, per girare un documentario: ho visto e visitato tutto il bello e il brutto del paese. Se vai a Rio non puoi non vedere Copacabana, Ipanema, Barra ma è giusto che – in sicurezza e con l’aiuto di persone del luogo, meglio evitare il fai da te – tu veda anche le favelas di Roçinha, Cidade do Deus, Mangueira e la mia “preferita”, se così si può dire, Vidigal, che si arrampica con una vista incantevole lungo la collina di Leblon.
Se nei dintorni sento parlare portoghese devo avvicinarmi e chiedere: “Brasil?”… se la risposta è sì posso restare attaccato ai poveretti per ore! Ricambio con vino italiano e consigli su dove andare a mangiare. Ho visto Salvador, Porto Alegre, Manaus, Belem, Belo Horizonte, Sao Paulo, Florianapolis e Curitiba: ognuna di queste città è speciale anche se non tutte sono esattamente il posto dove mi trasferirei. Ma Rio è Rio. E non c’è niente da fare: è il posto dove con un paio di pantaloncini e una maglietta, senza agghindarti come il turista tronfio in vacanza, puoi girare liberamente per ore, senza programmi, conoscere la città, le persone e finisci per innamorarti di questo posto che sembra sia stato plasmato con la plastilina o la cartapesta. Godersi il tramonto dalla baia di Flamengo o Botafogo è un incanto: caipirinha in una mano e un chopp (birretta lager leggera) nell’altra.
I brasiliani hanno una filosofia di vita semplice, in particolare proprio a Rio dove i miei amici mi dicevano “voi italiani pensate sempre a mangiare, a noi basta mangiare una volta al giorno”. Vero, anche se i brasiliani non ti dicono che uno dei loro pranzi veri, con churrasco e feijoada, manda in circolo un apporto calorico da vacanze di Natale e Capodanno tutt’insieme.
A Rio è normale andare in spiaggia e vedere i campioni del Flamengo, o del Vasco o del Fluminense che si allenano tra la gente: senza vigilantes o guardaporte. Alla fine dell’allenamento il tempo per una foto o per un autografo, c’è sempre. Poco più in là, a Barra de Tijuca, si allenano i fuoriclasse del beach volley, dal mattino alla sera. Non serve chiedersi perché il Brasile abbia avuto così tanti giocatori e tutti bravi: perché da loro ormai il beach volley è una “religione”, quasi quanto il calcio.
Che bello è stato parlare di tutte queste cose con Leandro Vissotto, che ho ritrovato con enorme piacere a Monza quest’anno, lui… tifoso del Flamengo come me e carioca fino al midollo. Ho cercato di spiegargli che cos’ho provato la prima volta che sono entrato al Maracanãzinho, il palazzetto a fianco al Maracanã dedicato – anche se non se lo fila nessuno – a un presidente emerito del Flamengo, il dottor Gilberto Cardoso. Il Maracanãzinho (lo stesso Palazzetto dove, il 28 ottobre 1990, l’ItalVolley maschile si laureò per la prima volta campione del mondo superando 3-1 Cuba e uno dei suoi miti, il “Diablo” Joel Despaigne -NdR) suscita inizialmente timore, quasi paura più che rispetto: perché dentro ti sembra di stare in un’immensa scuola di samba, quasi 15mila persone che si muovono incessantemente dall’inizio alla fine, all’unisono, in modo sinuoso e coinvolgente. Sembra un sabba, una catarsi, una sorta di rito liberatorio. E poi c’è il volley come lo giocano loro, sempre molto fisico così com’è la tendenza di questi ultimi anni ma creativo: perché un brasiliano non può non essere fantasioso, qualsiasi mestiere faccia.
L’ultima volta che sono stato lì ho visto Flamengo-Palmeiras di volley maschile e Flamengo-Sao Caetano do Sul di volley femminile: in mezzo, per non farmi mancare niente c’è stato spazio anche per la prima data sudamericana dei Faith No More, che di lì a poco si sarebbero sciolti per quindici anni. Ammetto, durante il concerto ho avuto paura: altro che “pogo”. Mi sembrava di stare in un frullatore, e siccome i brasiliani sono brava gente anziché calpestarmi e gettarmi nel fosso mi hanno tirato su da terra in almeno un paio di occasioni…
Giornate felici, spensierate e di assoluta confusione che non ho più vissuto. Mi stavo per sposare e non sono più tornato in Brasile: ci penso spesso, perché se fossi là ora non tornerei, forse, in Italia e perché probabilmente un po’ rimpiango anche di averlo fatto, ormai più di venti anni fa.