Di Roberto Zucca
Della pallavolo moderna, Andrea Zorzi non è stato solo uno dei principali attori protagonisti. È stato un veicolo di diffusione, un narratore, uno scopritore di parole e gesti che alla fine della sua carriera ha raccontato con dovizia di particolari. Mai banale, spesso troppo acuto per gli interlocutori che si trovava davanti. Nell’ultimo libro di Giuseppe Pastore, “La squadra che sogna”, ci sono alcune sezioni dedicate alla sua figura:
“Un bel lavoro, ricco di citazioni. Voglio subito dirle che alcune frasi non ricordo di averle dichiarate, ma non tanto perché sono pensieri scomodi, quanto perché tendo ad essere sopraffatto da pensieri fatti successivamente a quei momenti. Rispetto a tanti compagni di squadra e amici, ricordo molti meno dettagli di quelli anni”.
‘Certe volte mi passo il rasoio e non trovo la guancia’. 1990. Un periodo molto sacrificante per tutti voi. Pensa sia cambiato il concetto di sacrificio delle nuove generazioni?
“Ecco, prima citazione che non ricordo! Per rispondere alla sua domanda, non penso che si debba incorrere nell’errore di pensare, come si fa sempre, che i giovani hanno meno spirito di sacrificio delle vecchie generazioni. Non si prendono in considerazione una serie di fattori, come il cambiamento dei paradigmi nel volley, che ha rimesso in discussione il senso stesso del sacrificio. È cambiato, ad esempio, il modo di allenarsi, l’approccio allo sport, anche il modo di condividere la propria vita con la squadra”.
Mi spieghi meglio.
“Parlavo recentemente con Andrea Giani del fatto che nei nostri anni si viaggiava tanto. Quando andava bene, in pullman c’era un film da vedere. Viceversa, o si dormiva o si cercava di interagire con i propri compagni di viaggio. Si condivideva molto di più, ci si conosceva di più. Non c’erano tutte le distrazioni dei tempi odierni, che, non mi fraintenda, vedono anche me coinvolto. Anche io comunico e condivido alcuni aspetti di me e del mio lavoro tramite i social network”.
Il veicolo di condivisione principale della sua generazione era invece la televisione. Che rapporto ha avuto col successo?
“Un rapporto molto equilibrato. Negli anni di Milano, subito dopo i primi successi con la nazionale, io e Roberto Masciarelli, un fratello più che un amico tornammo da Stoccolma e venimmo strombazzati da un tassista che ci fece i complimenti per la vittoria agli Europei all’uscita dell’aeroporto di Linate. Fu il primo momento in cui capii che la pallavolo aveva varcato il confine degli appassionati”.
Lei diventò il primo volto pubblicitario del mondo del volley. Lo sa che su Internet non si trova più il suo storico spot della Gatorade, mentre quelli di Giani e della Maxicono sono sempre presenti?
“Penso sia legato al fatto che la Maxicono era parte del progetto sportivo della squadra di pallavolo, e qualche appassionato dell’epoca parmense lo ha magari caricato in rete. La mia fu una scelta slegata dalle sponsorizzazioni di Milano. Scelsero me come altri testimonial facenti parte di altri sport”.
La Mediolanum. Che ricordo ha del Silvio Berlusconi che la portò a Milano?
“Il ricordo di un uomo che amava lo sport. All’interno dello spogliatoio era il Berlusconi che si conosce al di fuori della politica, ossia simpatico, goliardico. Erano anni in cui stava costruendo il suo impero e anche noi fummo parte di quel progetto ambizioso. Con onestà, dico che la sua vera passione dell’epoca era però senza dubbio il Milan, nel quale era sicuramente più presente”.
In quelli anni lei si sposò con sua moglie Giulia. Riuscì a vivere quei momenti della sua vita privata nonostante gli impegni?
“Assolutamente sì. Erano anni in cui riuscivo a ritagliare il giusto spazio per la mia vita privata e avere un’esistenza molto equilibrata. Le ricordo che a Milano le vere star erano Gullit, Rijkaard, Van Basten. Noi uscivamo per strada, ma oltre all’autografo e alla foto saltuaria, potevamo andare ovunque. Loro facevano fatica ad uscire di casa!”.
I giornali dell’epoca non le risparmiarono qualche critica. Che rapporto ha avuto Zorzi con la stampa?
“Ottimo. Con gli inviati storici si creò un bel rapporto, personale e amicale con alcuni. Era un giornalismo che sapeva dove fermarsi, un giornalismo fatto in primis dal rispetto tra atleta e giornalista, che non era visto da noi atleti come un nemico. Capitava di giocare male qualche partita, ma non ho mai vissuto la critica sul personale. Da giornalista noto oggi che gli atleti hanno più paura che la chiacchiera e la confidenza vengano utilizzate a scopo sensazionalistico. Con noi il confine non veniva mai oltrepassato. La confidenza rimaneva nella dimensione privata dell’intervista”.
1996. La sua ultima Olimpiade. Fu doloroso riprendersi da quel mancato oro?
“No, non ho avuto bisogno di riprendermi da Atlanta. È stato molto più doloroso riprendersi da Barcellona ’92, perché ad Atlanta possiamo dire di aver giocato una buona Olimpiade, una buona pallavolo. A Barcellona l’incapacità di gestire quel momento di grande fulgore per la nostra nazionale ci ha portato, tutto sommato, a giocare male per tutta l’Olimpiade, arrivando ai quarti di finale e perdendo senza mai esprimerci al nostro livello”.
Se potesse essere presidente per un giorno, quale squadra del passato rifonderebbe?
“Direi Parma, perché è stata la mia prima esperienza fuori dal paese in cui sono nato. Abbiamo sofferto tanto e in tanti momenti è stata dura, ma la battaglia tra Parma e Modena ha rappresentato il meglio della pallavolo di quelli anni. Parma è stata la città, e la squadra, che mi ha aperto le porte del mondo”.
Dopo la pallavolo c’è stato tanto altro. Il teatro ad esempio. Dove è andato a prendere le emozioni trasmesse ne “La leggenda del pallavolista volante”?
“Non sono andato a prenderle. Nicola Zavagli e Beatrice Visibelli, che hanno vissuto di teatro per tutta la vita, mi hanno aiutato ad esprimermi in quella circostanza. Io, in fondo, ho raccontato i miei ricordi e le mie sensazioni, e Nicola, con la sua direzione, ha trasformato quelle statistiche che facevano parte del racconto in un’emozione in formato teatrale. Non pensavo di poter raccontare la mia storia in quel modo. Fui il primo ad essere sorpreso del risultato di quel lavoro”.
Esiste una commistione tra l’artista e il pallavolista?
“C’è una linea comune, ci ho pensato a posteriori, ovvero il fatto che le emozioni che si vivono sul palcoscenico e sul campo sono vissute in totale concentrazione non forzata. Tu sei lì, il tuo cervello è sicuramente attivo, ma non è il comandante. Ti permette solo di muoverti con naturalezza in uno stato di grazia, nel quale tu sei lì e sei incurante del resto”.
Lei è stato sportivo, artista, giornalista. A 55 anni (da compiere a luglio) c’è qualcosa che non ha ancora fatto e che vorrebbe fare?
“Vorrei essere consapevolmente adulto. Vorrei evitare di restare troppo nel passato e accettare ciò che mi sta accadendo. Mi piacerebbe avere l’opportunità di continuare a conoscere ambienti diversi. Sul piano personale invece vorrei continuare ad avere quella curiosità che mi ha accompagnato da quando ho smesso di essere un atleta. E vorrei essere un po’ meno analitico, un po’ meno categorizzante. Un po’ meno programmatore, ecco tutto”.