Di Stefano Benzi
Lo sport, le competizioni in genere, sono uno straordinario esercizio di umiltà. Uno dice ‘fenomeno’ e dopo due anni corregge il tiro: sopravvalutato. Un altro sentenzia ‘brocco’ e dopo sei mesi torna sui suoi passi… da rivalutare.
Il mondo dello sport, la pallavolo non fa alcuna eccezione, è una palestra di giudizi a volte affrettati altre attesi troppo a lungo all’interno della quale bisogna fare valutazioni, prendere decisioni. Se le azzecchi sei un fenomeno. Se le sbagli sei un cretino. Tanto sei tu che paghi: gli altri – tifosi, stampa – addetti ai lavori – giudicano il tuo giudizio senza metterci nulla del loro.
Un grande giornalista che non amava particolarmente la pallavolo, Maurizio Mosca, con cui ho avuto il privilegio di condividere uno studio televisivo per sei anni della mia vita mi diceva… “ricordati che con il giornale di ieri ci incartano il salame di oggi”. Come dire… Nulla è scritto sulla pietra.
Per questo oggi dedichiamo tre brani da inserire nella nostra play list a chi, in qualche modo, ha cambiato idea. E lo ammette.
Ci ha sorpreso leggere le dichiarazioni, sintetizzate qui, dell’ormai ex presidente di BluVolley Verona Stefano Magrini che ha deciso di uscire di scena dopo undici anni di impegno ad alto livello. Dal palasport scaligero sono passati fior di protagonisti, ottimi allenatori (Giani, Grbic, Stotchev) ma le soddisfazioni non sono state moltissime, così come va sottolineato che non è che il pubblico si sia accalcato per le prestazioni di una squadra: che pure ha vissuto momenti di una certa intensità. La pandemia sicuramente è stata il colpo di grazia: ma l’impressione è che Magrini, che nel volley a Verona ha investito un sacco di soldi, abbia dato tanto ricevendo pacche sulle spalle, congratulazioni, complimenti. Ma pochi gesti davvero concreti: della città, di altri imprenditori e anche del pubblico. Logico che la sua ultima intervista, nella quale Magrini parla dei suoi errori e anche di qualche rimpianto, sia all’insegna del dispiacere.
Arriva sempre il momento in cui chi ha investito nello sport, picchiandosi con permessi, palestre, arene in coabitazione, costi, cannibalismo del calcio, si chieda… “ma ne è valsa la pena”?
Il confine tra il successo e il rimpianto è sottilissimo, soprattutto nello sport. Sliding Doors… C’è una canzone che ne parla meglio di altre ed è “Fortune Faded” dei Red Hot Chili Peppers. In un testo che definire visionario è dir poco (scritto da Anthony Kiedis) il cantante si chiede che cosa ci sia di diverso tra andare in paradiso o finire all’inferno: “Semplice – dice – basta sbagliare la porta dell’ascensore e che ne sai di quello che può succedere. Sei lì che pensi se e cosa è andato storto e sei a terra, e la sorte ti ha girato le spalle insieme a tutti quelli che credevi che fossero amici”.
Una travolgente versione live di “Fortune Faded” dei Red Hot Chili Peppers al Festival Loollapalooza del 2006.
Due anni fa l’Italia salutava l’arrivo in Italia di Kathryn Plummer, sontuosa schiacciatrice americana che con Stanford University aveva vinto tutto. Titoli individuali, MVP a pioggia, sempre in Final Four NCAA, una fuoriclasse anche nel beach dove vince i Mondiali giovanili facendo collezione di medaglie e trofei. Una predestinata. Monza la mette sotto contratto nel 2019 portando in Italia una delle giocatrici potenzialmente più forti di sempre. Inizialmente tanto entusiasmo… Ma la stagione non ci conclude: a causa del Covid. Kathryn torna negli Stati Uniti e da là saluta: “Scusate ma non rientro”. D’altronde con Trump che aveva chiuso le frontiere e le compagnie aeree che avevano sospeso i voli era dura pensare di potere riprendere il discorso interrotto. Contratto risolto. Plummer va giocare in Giappone con le Denso Airybees ed è solo di pochi giorni fa l’annuncio che tornerà in Italia per giocare con l’Imoco. “Non vedo l’ora…” fa sapere la schiacciatrice americana che sceglie la squadra più forte d’Europa, forse del mondo, e dunque sicuramente non cade male. L’impressione è che Plummer, che a Monza molti ricordano come una giocatrice non solo forte, ma entusiasta, arrivi a Conegliano più matura e pronta in un campionato non facile nel quale forse era arrivata troppo presto, senza quel bagaglio di esperienza e di determinazione necessaria ad affrontare la sfida.
A Kathryn, californiana di Long Beach, felici di ritrovarla in Italia, dedichiamo una canzone evocativa: un gruppo californiano, come lei, che magari non conosce. Anche perché i durissimi Faith No More hanno scritto questa canzone l’anno prima che lei venisse al mondo. Ma quando le ho visto chiudere due o tre palloni con quel braccio armato che contrasta con la sua treccina bionda e il viso rotondo e sorridente di una qualsiasi teen ager americana mi è venuta in mente proprio questa canzone, “Collision”. Primo brano di “Album of the Year”. Alla presentazione del disco Mike Patton – il cantante della band, un personaggio tanto bizzarro quanto straordinario – disse… “apriamo il disco con un brano tollerante, tranquillo. Come un calcio alla bocca dello stomaco”. Ascoltare per credere.
I Faith No More aprono il Phoenix Fest di Stratford Upon Avon con “Collision”.
In un mondo in cui i Guru si sprecano e gli influencer si vendono a trance sul mercato come il pesce surgelato (chi la spara più grossa di solito vince) quando si ha la fortuna di incontrare qualcuno che ha qualcosa da dire bisogna aprire le orecchie e tenere chiusa la bocca. Le poche volte che ho avuto il piacere e l’onore di sentire parlare direttamente e non per interposta persona Julio Velasco ho sempre imparato qualcosa. In questi giorni, in cui l’Italia del Volley si prepara alla lunga marcia verso le Olimpiadi e quella del calcio festeggia una Nazionale – obiettivamente – brillante, Velasco si segnala con una frase davvero molto intelligente. “Quando si parla di Nazionale limitiamoci a fare il tifo”: vale per tutti e per qualsiasi sport.
A Velasco, cui sappiamo l’appellativo di ‘Mago’ non è mai piaciuto, figuriamoci quello di ‘Genio’ o di ‘Guru’, possiamo permetterci di dedicare una canzone assoluta, scritta da un genio che essendo tale aveva abbastanza intelligenza per prendersi in giro. John Lennon. Fu lui a scriverla quasi tutta, testo e musica: Paul McCartney aggiunse alcuni dettagli e l’orchestrazione. “I Am The Walrus” (sono il tricheco), era quello che Lennon rispondeva a chi gli chiedeva se si rendeva conto di essere un genio, un profeta. Lui partorì un testo assurdo, talmente ricco di allegorie e immagini nascoste da sembrare incomprensibile. L’unica volta che parlò di questa canzone disse… “se la gente pensa che sia geniale, perché dovrei far cambiare loro idea?”
Il video originale di “I Am the Walrus” dal film musicale “Magical Mistery Tour”
Questa invece la versione degli Oasis, una delle poche band che poteva davvero permettersi il lusso di proporla live. Dal tour del 2002, uno degli ultimi con i due fratelli Gallagher ancota insieme.