Come si riesce a tutelare e coltivare l’io nella società della performance? O meglio, come si impara a “essere” all’interno di una realtà che ti chiede di “saper fare”? Interrogativi che interessano e impattano la quotidianità di ognuno di noi, nella vita e, ancor di più, nello sport. Ecco che, in questa ricerca di equilibri, la mente gioca un ruolo fondamentale. La mente e tutto ciò che riguarda l’universo psicologico di una persona e di un atleta. A maggior ragione, se si è attori di un contesto sociale “liquido” come quello attuale, che, per sua natura, esalta la perfezione e si muove sui binari dell’immediatezza, senza lasciare spazio a incertezze, pause e fragilità. Debolezze di cui, però, è esso stesso causa.
Dinamiche che si riflettono in modo trasversale anche sulla pallavolo. Per entrare in quello che è il rapporto tra psicologia e sport, e parlare di salute mentale degli atleti, abbiamo contattato la dottoressa Sara Pegoraro, psicologa clinica, psicologa dello sport ed ex pallavolista (qui il suo account ufficiale su Instagram).
Dottoressa, per cominciare può dirci chi è lo psicologo dello sport, cosa fa, con e per chi lavora?
“Lo psicologo dello sport, prima di tutto, ha conseguito una Laurea Magistrale in psicologia e superato l’Esame di Stato per iscriversi all’Albo degli psicologi nella Sezione A, che permette di esercitare la professione. A quel punto il percorso formativo è seguito da una formazione post laurea in Psicologia dello Sport e da esperienze professionali nel settore. Il cuore del suo ambito di lavoro è il rapporto tra mente e corpo: l’obiettivo è integrare l’allenamento fisico con un intervento psicologico che aiuti l’atleta a potenziare la prestazione, attraverso tecniche di rilassamento, motivazione, incremento dell’autostima, gestione dell’errore, gestione delle emozioni quali l’ansia e l’aggressività, tecniche di concentrazione e di gestione dei fattori distraenti. Lo psicologo favorisce, inoltre, la comprensione di ciò che avviene durante l’esecuzione del gesto motorio, interviene nei processi relazionali e nelle attività di recupero dagli infortuni.
Gli ambiti di lavoro tipici sono le realtà legate al mondo dello sport, come società, organizzazioni sportive o singoli atleti di alto livello, soprattutto se ci si occupa di sport agonistico, ma anche realtà con un compito socio-educativo oltre che sportivo, come le scuole e i servizi degli enti pubblici. Altri ambiti possono essere le società di consulenza private e i centri di ricerca, all’interno delle Università o centri di studi privati“.
Può farci qualche esempio di situazioni in cui l’intervento dello psicologo dello sport può essere richiesto o addirittura necessario?
“Non sempre è chiaro in cosa e quando è richiesto l’intervento dello psicologo dello sport. A volte si consulta quando all’interno di una squadra il clima non è sereno, oppure quando alcuni atleti non raggiungono obiettivi e prestazioni desiderate, o ancora, quando potrebbe ricoprire una funzione di prevenzione, intervenendo nei rapporti tra staff, allenatori e atleti, o in un’organizzazione degli allenamenti che non tiene in considerazione le necessità emotive dell’atleta. In tutte queste situazioni lo psicologo dello sport influisce positivamente sull’ambiente, può essere un’ottima risorsa e di conseguenza il suo intervento è sempre consigliato“.
Come è avvenuto il suo incontro con la Psicologia dello sport? Cosa l’ha affascinata di questo ambito? Qual è stato il suo percorso?
“Ho deciso di intraprendere questo percorso subito dopo la laurea magistrale in Psicologia Clinica. Non mi sentivo ancora pronta per iniziare una Scuola di Specializzazione, ma volevo comunque incrementare le mie competenze da spendere nel concreto. Ho scelto quindi di optare per un Master. Perché proprio in Psicologia dello sport? Sono sempre stata una grande sportiva, ho giocato a pallavolo per molti anni della mia vita e nonostante ora non sia più in campo, mi sembrava un ottimo modo per conciliare la passione per lo sport con la mia professione, per sentirmi ancora parte integrante di una realtà sportiva, anche se in un altro ruolo. Ritengo che lo sport sia una palestra di vita da cui imparare molto, a partire dalla sconfitta. Poter contribuire nel processo di crescita dell’atleta, mi dà grande soddisfazione e mi motiva ogni giorno“.
Quali caratteristiche o inclinazioni, secondo lei, occorrono per essere un buon psicologo dello sport?
“Penso che di base ci sia una grande passione per lo sport e per la competizione in generale, poiché ci si ritrova a stretto contatto con atleti e squadre. Inoltre, ci vuole una buona conoscenza dello sport per cogliere gli elementi più importanti per ogni tipologia di atleta e sintonizzarsi perfettamente con ciò che egli pensa, percepisce e sente; senza dimenticare la flessibilità, che permette di adattarsi ad ogni tipo di ‘campo’. A queste si aggiungono altre inclinazioni che fanno parte del bagaglio personale di ogni psicologo, indipendentemente dalla formazione, come l’empatia, la capacità di ascolto non giudicante e il rispetto della diversità e della problematica manifestata“.
Da psicologo e psicologo dello sport, come coordina l’obiettivo di sostenere la salute psicologica del cliente con l’ottimizzazione della sua prestazione sportiva?
“Partiamo con il sottolineare quanto lo sport possa portare benefici a chiunque decida di praticarlo, sia a livello agonistico che dilettantistico. Per citarne solo alcuni, lo sport permette di migliorare il tono dell’umore, riduce i livelli stress, migliora la resilienza, l’empatia e le abilità sociali; con lo sport l’atleta costruisce l’immagine che ha di sé in relazione ai propri limiti e obiettivi, alle proprie motivazioni, agli avversari e al pubblico. Così, più riuscirà ad utilizzare le proprie risorse per mettere in campo performance di livello, più ne potrà trarre un’immagine di sé come efficace.
Ecco come coordinare la salute psicologica con l’ottimizzazione della performance, a partire proprio dai benefici che lo sport porta con sé, a cui si aggiunge un percorso mentale costruito ad hoc per l’atleta, offrendo risorse e strumenti che possono favorire l’auto-consapevolezza. Lo psicologo dello sport verifica ed ottimizza le strategie mentali normalmente utilizzate dall’atleta per tradurle in obiettivi realistici. Solo con un equilibrio personale si potrà poi migliorare la performance. Psicologia dello sport e promozione del benessere vanno di pari passo. Incentivare lo sport, metterlo in risalto positivamente, aiuta a darne maggior credito, e da questo valorizzare la sua componente psicologica“.
Se dovesse fare un bilancio, quanto incide in una performance la componente tecnica e quanto quella mentale?
“Ogni prestazione sportiva è il risultato di più elementi che si coniugano tra loro: preparazione fisica, tecnica, tattica e preparazione mentale. Come già sottolineato, la preparazione mentale nello sport è fondamentale ed è il fattore che può fare la differenza, perché facilita l’espressione di tutte le potenzialità dell’atleta. Pensiamo ad un giocatore fisicamente performante, con una buona tecnica e tattica, ma che arriva in gara con una forte ansia, tale da non permettergli di giocare la sua competizione al meglio; ecco che allora, avere buone capacità motorie non basta, serve anche sviluppare una buona concentrazione, una buona gestione dell’arousal e controllo delle emozioni. Quindi, ritornando al bilancio, potrei direi che il 70% di una buona performance deriva proprio dalla componente mentale“.
Quali sono i rischi psicologici più importanti per un atleta?
“Ce ne sono molti, ma il primo che mi viene in mente è il successo. Si, perché se da una parte il successo rinforza l’autostima e ha effetti positivi sullo sviluppo della personalità dell’atleta, dall’altra però, se arriva troppo in fretta, è ‘inaspettato’ o ‘mal gestito’, può generare un’ansia da prestazione che complica le cose. La continua pressione psicologica a cui un atleta è sottoposto, infatti, se non viene gestita correttamente, può rappresentare una minaccia per il proprio equilibrio emotivo. Questo perché l’atleta ha il timore di non rispondere alle aspettative, in primis verso se stesso e poi verso gli altri. Se non è adeguatamente preparato a considerare gli insuccessi come facenti parte del percorso normale per progredire e come un’occasione per analizzare le cause che li hanno determinati, l’atleta rischia di vederli solo come emozioni negative e destabilizzanti“.
Sotto la vita da copertina degli atleti si può annidare la depressione: ne hanno parlato anche grandi campioni della pallavolo come Matt Anderson, Luciano De Cecco, Bruno Rezende e Rosamaria Montibeller. Da dove nasce questa sofferenza? Come si manifesta e soprattutto come si affronta?
“Quando un atleta professionista vive e lavora con il suo sport, rischia costantemente il fallimento: una performance, un evento negativo, un infortunio, il mancato raggiungimento di un obiettivo… Per coloro che non possiedono una sufficiente autostima, tali aspetti possono rappresentare un fallimento del proprio Sé, della propria identità, sentendosi inadeguati e inadatti. Ecco che proprio da questi momenti può insorgere la depressione, diversa da una normale sensazione di tristezza o di un passeggero stato di cattivo umore: è una vera e propria patologia che presenta caratteristiche di persistenza e che può interferire pesantemente sul modo di pensare, sul comportamento, sulle condizioni dell’umore, sull’attività e sul benessere fisico.
Inizialmente la depressione si manifesta sotto forma di tristezza e in seguito porta ad un rallentamento mentale, una scarsa concentrazione, una perdita di interesse per il proprio mondo e incapacità di pensare ad un futuro positivo, insonnia e persino a ideazioni suicidarie. Come si affronta? È importante in primo luogo riconoscerla e riconoscere di avere un problema per poter chiedere aiuto, senza pensare di ‘potercela fare da soli’ e in seguito parlarne senza vergogna, affidandosi ad un esperto“.
Di depressione e malattia mentale in Italia si parla ancora con l’imbarazzo che si riserva alle cose che si preferirebbe tenere nascoste, che sarebbe meglio non nominare. Come mai è ancora presente questo stigma?
“Ancora oggi l’equazione ‘soldi più fama uguale a felicità’ è una convinzione ben salda tra le persone comuni e spesso si tende a non capacitarsi di come una persona ricca e famosa possa sviluppare determinate patologie. L’ideale dell’atleta forte fa sì che la malattia mentale venga ignorata, allontanata e stigmatizzata. Così l’atleta non solo è portato a non parlarne ma addirittura a sentirsi sempre più solo nel suo dolore, con il timore di essere giudicato un fallito, incapace di superare con le sue forze dei ‘momenti di debolezza’.
Eppure, chiunque capisce che non sarebbe possibile affrontare un cancro solamente con la propria forza di volontà, per dimostrare a se stessi che non si ha bisogno di dipendere da alcuna soluzione esterna. Ma non è così per le malattie mentali, quasi come se al cervello non venisse riconosciuto lo status di organo biologico, essendo sotto il nostro pieno controllo. Normalizzare l’importanza degli aspetti psicologici nell’attività sportiva e riconoscere che le malattie mentali sono realmente malattie, da curare con l’intervento di medici e l’uso di farmaci, permetterebbe una migliore gestione delle crisi degli atleti durante la loro carriera, con l’obiettivo di non stigmatizzarle o ingigantirle“.
Impegni sempre più serrati e poco tempo per riposarsi: nella pallavolo d’élite, così come in altri sport, questa tematica è ormai all’ordine del giorno. Quanto è importante il riposo per la salute mentale e psicologica di un atleta?
“Non c’è dubbio che il legame tra sonno e prestazioni atletiche sia importante. Il sonno può apportare benefici a un atleta in molti modi e influire su diverse aree di prestazione. Eppure di solito è l’aspetto più sottovalutato e trascurato dagli atleti che credono di poter essere sempre performanti al massimo. È stato studiato, infatti, che il poco sonno porti effetti negativi, come confusione e diminuzione del vigore, cali di attenzione visiva, relazioni spaziali e memoria di lavoro. Il suggerimento che mi sento di dare, soprattutto agli atleti agonisti, è quello di cercare di mantenere un buon equilibrio tra allenamenti e riposo, pianificando almeno un giorno a settimana di recupero e delle pause per riprendere le energie sia fisiche che mentali. Dare priorità a un sufficiente sonno aiuterà a mantenere una visione positiva e sentirsi meno ansiosi, stressati o depressi“.
In conclusione. Come psicologa dello sport, tra tutti i consigli e le indicazioni, quale in particolare si sente di dare agli atleti professionisti?
“Diventare ed essere un atleta professionista richiede duro lavoro e pazienza. In qualsiasi disciplina ci saranno sempre alti e bassi. Verranno giorni in cui vi verrà voglia di mollare tutto e ricominciare una vita lontano da quello sport. Tuttavia, ci saranno anche dei giorni indimenticabili che vi incoraggeranno a lottare e continuare sulla vostra strada. Per riuscire a non crollare è importante sapere come gestire le proprie emozioni, rimanere concentrati e non lasciarsi influenzare dai propri sentimenti o dagli stimoli esterni, ma soprattutto non dimenticare di continuare a divertirsi e provare piacere per il proprio sport.
Un altro consiglio che mi sento di dare, forse più difficile da mettere in pratica, è quello di avere un piano B, ovvero dare un senso alla propria identità indipendentemente dall’attività sportiva. Quando si fa sport a livello agonistico, infatti, è inevitabile costruire la propria identità attorno allo sport, identificandosi con questo ruolo e incarnandolo. Ma quando questo percorso giunge al termine (a volte neanche per volontà dell’atleta) è necessario un lavoro di ricostruzione e di adattamento a questa nuova realtà, che può essere molto lento e faticoso. Allora, iniziare a costruire tale identità prima di essere costretti a farlo, potrebbe rendere tutto meno doloroso per l’atleta“.
A chi invece pratica dello sport a livello dilettantistico e magari non può avvalersi di uno psicologo o di un team di psicologi, che consigli dà?
“Premettiamo che lo psicologo dello sport prende in considerazione tutte le discipline, da quelle individuali a quelle di squadra, a tutti i livelli, dal settore giovanile, a quello dilettantistico. Detto questo, anche per chi pratica sport a livello dilettantistico è importante non solo la preparazione fisica, tecnica e tattica ma anche quella mentale, per ottenere un miglioramento in termini di prestazione. Allora il mio consiglio è quello di non sottovalutare l’aspetto mentale a prescindere dall’obiettivo che si intende raggiungere professionalmente e non meno importante, come già suggerito per l’atleta agonista, non dimenticare il piacere e il divertimento per l’attività che si sta praticando“.
di Alessandro Garotta