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Zorzi esclusivo: Hall of Fame, evoluzione della pallavolo, della comunicazione e molto altro

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Lo diciamo subito, questa intervista è bella lunga, di conseguenza ne sconsigliamo la lettura a un pubblico più a suo agio con contenuti mordi e fuggi. Foto, titolo e via andare. Quello che segue è il risultato di oltre un’ora di conversazione che ha toccato un numero davvero rilevante di temi, raccontati e messi a fuoco da Andrea Zorzi con la sua ormai proverbiale maestria dialettica e profonda conoscenza della pallavolo e di tutto quello le gravita attorno. Dunque mettetevi comodi, confidiamo che ne varrà la pena.

La prima volta che ho incontrato di persona Andrea Zorzi è stato all’inizio della primavera del 2007, quasi per caso, nel minuscolo baretto degli studi Sky di Cologno Monzese. Si trattava di un piccolo locale, vi si accedeva da un corridoio altrettanto stretto, varcata la porta si era pressati a sinistra dalla parete e a destra dal bancone, poi una volta dentro c’erano dei tavolini infondo alla sala. In pratica quando trovavi più di due, tre persone al bancone, o aspettavi fuori dalla porta o chiedevi permesso e ti facevi strada spalmandoti sulla parete.

Un giorno, uno dei miei primi a Sky, ero arrivato a inizio marzo, provai a prendere un caffè: davanti al bancone c’erano Fabio Caressa, che pochi mesi prima aveva perso le corde vocali commentando il Mondiale del 2006, Beppe Bergomi e Zvone Boban. Chiedere permesso a loro mi sembrava quasi offensivo, quindi rimasi sulla porta ma ad un tratto vidi stagliarsi poco più indietro un gigante: era proprio lui, il nostro Andrea Zorzi che quasi sfiorava il soffitto con la testa e quei capelli che erano ancora lunghi e tutti neri.

Aspettai di passare, soprattutto aspettai che lui si fosse seduto per riuscire a parlargli facendomi guardare almeno negli occhi… Mi avvicinai con tutta la timidezza di uno stagista, poi mi feci coraggio, mi presentai e dissi: “Io sono di Taranto, quest’anno se continua così mi sa che vanno ai playoff” (poi così fu effettivamente). Zorro mi guardò, mi sorrise, e mi rispose anche. Con estrema cordialità. Cosa mi disse francamente non lo ricordo più, ma quel momento per me fu una grande emozione. Era proprio lui, quello che avevo visto in tv per tutta la mia adolescenza fino al 1998, quando per me fu tempo di esami di maturità e per lui di smettere di giocare.

Oggi, con la stessa emozione di allora, lo ritrovo a distanza di qualche annetto, brizzolati ormai entrambi. Andrea Zorzi è entrato (finalmente mi viene da dire) nella International Volleyball Hall Of Fame. Quale occasione migliore per intervistarlo per VolleyNews? Questa volta, però, quello che ci siamo raccontati non lo dimenticherò facilmente.

Ma andiamo con ordine iniziando da questa induzione tra i giganti che hanno fatto la storia di questo sport.

“Il viaggio negli Stati Uniti è stato lungo. Siamo partiti l’11 e tornati il 24 ottobre. Abbiamo sfruttato questa occasione per rivedere amici e luoghi a noi cari, perché mia moglie Giulia (Staccioli, ndr) negli anni ’90 ha prima studiato a New York e poi lavorato con una compagnia di danza nel Connecticut”.

Che emozione è stata per te entrare nella Hall Of Fame sotto gli occhi di tua moglie Giulia e tuo figlio Numa?

“Non c’è dubbio che qualunque situazione in cui siano presenti sia un’amplificatore incredibile, per due ragioni diverse: Giulia perché mi ha conosciuto prima che io diventassi un giocatore di pallavolo famoso, mentre Numa è nato dopo che ho smesso di giocare. Loro sono la mia famiglia, qualcosa a cui tengo immensamente, e in questo caso specifico averli davanti a me è stato qualcosa di assolutamente importante ed emozionante”.

foto IVHF – Andrea Zorzi con la moglie Giulia Staccioli e il figlio Numa

Come hai appreso la notizia che saresti entrato a far parte della International Volleyball Hall Of Fame?

“In realtà, il processo di induzione nella IVHF prevede una fase di votazione aperta al pubblico e lì avevano fatto una lista ristretta di giocatori, tra i quali oltre a me c’erano anche Raúl Quiroga, Ivan Miljković e forse anche un quarto. Chiuse le votazioni, il 13 maggio mi arrivò una mail di George Mulry (Executive Director della IVHF, ndr) che mi chiedeva se fossi disponibile per uno Zoom meeting. A quel punto io, facendo due più due, ma anche quattro più quattro, mi son detto ‘se mi chiamano non sarà per dirmi ci dispiace ma non ce l’hai fatta’ – ride – e quindi avevo tanto sperato che quel meeting fosse la conferma dell’induzione, e infatti così è stato. Il caso ha poi voluto che a darmi ufficialmente la bella notizia fosse anche Joop Alberda, guarda caso l’allenatore che è legato alla peggiore sconfitta della nostra storia (coach dell’Olanda nella finale olimpica di Atlanta 1996, ndr). Al di là di questo, sentirmi dire ‘Siamo lieti che farai parte della International Volleyball Hall Of Fame’ è stata una cosa che non dimenticherò mai”.

Cosa ti ha reso più orgoglioso di questa induzione nell’Olimpo della pallavolo mondiale?

La cosa che mi rende molto fiero è che ci sia tanta Italia in quella Hall of Fame. Per quanto riguarda quella nazionale, poi, è chiaro che cinque atleti nella IVHF (prima di Zorzi sono stati indotti Bernardi, Gardini, Giani e Papi, oltre al ct Velasco, senza dimenticare gli altri italiani Silvano Prandi e Giuseppe Panini) sono un’altra dimostrazione di quanto quella squadra sia stata forte ed importante a livello mondiale. Io l’ho accennato anche nel mio discorso: se avessero scelto un altro atleta di quella Italia, sarebbe stato assolutamente meritatissimo perché quella squadra, nella sua grandezza, ha avuto tanti, ma tantissimi giocatori di altissimo livello. Quindi sono personalmente felice che abbiano scelto me, ma sempre con questa idea che sia stata la pluralità di quella squadra a renderla così speciale”.

Immagino che avrai ricevuto tanti messaggi dai tuoi ex compagni. Puoi raccontarci quale ti ha fatto sorridere e quale invece emozionare?

“Il Gardo mi ha detto subito ‘Devi assolutamente andarci perché è molto divertente’. Samuele Papi, che è stato indotto nel 2022 ma non riuscì ad essere presente, mi ha chiesto di ritirare per lui l’anello, la divisa e la documentazione, che ho adesso io in mano e gli darò appena lo incontro. Il Giangione, che per me è un fratello, è stato come sempre carinissimo. Lorenzo Bernardi idem. Quindi sono davvero molto molto felice per questa loro sensibilità nei miei confronti nonostante siano tutti presissimi”.

Dopo tantissime medaglie ora potrai sfoggiare quindi anche questo anello, che è una cosa molto americana e molto poco europea.

“Sì, questa è una tradizione assolutamente anglosassone. Considera che a cinque minuti di distanza, a Springfield, c’è l’Hall Of Fame del basket. È evidente che nell’immaginario collettivo, ma anche mio, gli anelli siano quelli di Michael Jordan, ma ti dirò la verità, rispetto a quella del basket, che abbiamo anche visitato, io ho letteralmente adorato l’atmosfera più intima, direi più familiare, più sincera, della nostra Hall of Fame della pallavolo. E poi la nostra è davvero più internazionale perché l’NBA fino a poco tempo fa ha celebrato solo giocatori americani, mentre la Hall Of Fame del volley è rappresentata da tantissime nazionalità diverse e questo dimostra il valore internazionale della pallavolo”.

A proposito di basket, quando la Superlega italiana viene definita l’NBA del volley’ è un accostamento corretto oppure una forzatura?

“Il riferimento può essere legittimo dal punto di vista tecnico. La nostra Superlega è e rimane un riferimento, ma non è l’unico perché il campionato russo è stato di altissimo livello, negli ultimi anni quello polacco per altre ragioni. Per quanto riguarda invece l’impostazione di business, ritengo che la struttura dell’NBA sia improponibile in qualunque altro contesto. È una lega che non ha equivalenti in giro per il mondo da questo punto di vista. Credo anche, ma questa è una mia personalissima opinione, che non sia così interessante per la pallavolo considerare quel modello, così commerciale e così legato al business, il modello a cui ispirarsi. Quello che dovremmo fare, invece, è capire come sfruttare al meglio le risorse ed eventualmente trovarne altre”.

Alessandro Michieletto (Itas Trentino) e Paola Egonu (Numia Vero Volley Milano)

A questo punto allora ti chiedo quali siano, secondo te, queste peculiarità che la pallavolo dovrebbe sfruttare per diventare un modello di riferimento, soprattutto in Italia.

“La pallavolo è lo sport di squadra che in assoluto ha il maggiore equilibrio tra maschi e femmine. In un momento storico in cui la sensibilità del gender gap è così importante, a me quella pare essere una chiave fondamentale. Il movimento della pallavolo dovrebbe essere bravo a raccontare questa specificità, questo equilibrio. Potrebbe essere una grande opportunità”.

In Italia Lega maschile e Lega femminile non si sono mai parlate molto. Di recente, però, c’è stato un primo storico incontro tra i due Cda. Qualcosa sta cambiando?

“Io lo spero tantissimissimissimo, con tutti i superlativi di cui sono capace, anche se temo che questo avvicinamento sia avvenuto un po’ in ritardo, quasi come una reazione a questa legittima e doverosa esplosione della pallavolo femminile, che con l’oro olimpico ha avuto giustamente una esposizione enorme. Devo dire che sono sempre rimasto sorpreso del motivo per cui le nostre due leghe non fossero riuscite a collaborare. Le ragioni pratiche le comprendo, però mi è sempre sembrato molto chiaro sin dall’inizio che, ancor più di altri sport, la pallavolo dovesse convergere verso una collaborazione tra maschile e femminile. Negli altri sport, come il calcio per fare un esempio, è il movimento maschile che traina quello femminile, qui questo non è richiesto perché, come detto, la grande virtù della pallavolo è questo grande equilibrio”.

da sinistra: Massimo Righi (presidente Lega Volley maschile) e mauro Fabris (presidente Lega Volley Femminile)

Pensando alla pallavolo in termini di business, quali sono gli aspetti del gioco che rendono questo sport un prodotto vendibile, quindi di interesse per gli investitori.

“Questo è stato argomento di confronto anche ad Holyoke – sede della IVHF, ndr -. Molti sono convinti che il livello tecnico del gioco espresso non sia così rilevante per rendere spettacolare una partita, ma che sia più importante l’equilibrio. Io su questo sono abbastanza d’accordo. Questo non vuol dire che la pallavolo giocata male sia bella, ma vuol dire che tal volta un fine conoscitore di questo sport sia portato a pensare che giocare bene a pallavolo, su gesti molto specifici e molto tecnici, sia la cosa più importante, mentre questo aspetto non è così rilevante per il pubblico. Uno dei temi che è emerso, ad esempio, sono i tanti, troppi, errori al servizio che sono spesso incomprensibili e interrompono il ritmo. Per lo spettacolo forse sarebbe più utile e divertente battere un po’ meno forte ma sbagliare di meno. Non stiamo dicendo che bisogna diventare degli entertainers, ma di sicuro aiuterebbe avere un approccio un po’ più ampio e non strettamente tecnico”.

foto IVHF – Tim Hovland e Andrea Zorzi

Dal punto di vista tecnico, invece, il quale direzione si sta evolvendo il gioco?

“Sia nel maschile che nel femminile sta diventando predominante il tema del ‘riciclo’, ovvero la capacità di essere efficaci in copertura, in difesa, nell’attacco a muro per rigiocare, e le azioni sono lunghissime. Quello che è stato per anni il limite della pallavolo, ovvero azioni che finivano in tre secondi, ora nell’alto livello si è sensibilmente ridotto perché la qualità della difesa e della copertura è davvero migliorata tantissimo. Altro tema importante è legato alla fisicità. Oggi ci sono alcuni atleti a livello mondiale che non sono altissimi ma sono molto tecnici e questo sta cambiando la pallavolo a livello mondiale”.

Restando sul tema dello spettacolo, del “prodotto pallavolo”, un calendario così fitto di partite durante la stagione, tra club e nazionali, lo ritieni utile o controproducente? In altre parole, se la leva di marketing del movimento deve essere l’equilibrio, aiuta avere campionati a 12 e 14 squadre con valori così distanti tra le prime e le ultime in classifica?

“È indubbio che con una riduzione del numero di squadre sarebbe più facile avere partite più equilibrate. L’imprevedibilità del risultato dovrebbe essere l’obiettivo a cui tendere. Altro obiettivo dovrebbe essere legato alla sostenibilità. Ridurre il numero di squadre aiuterebbe anche in questo? Forse sì, forse no, ma ripeto, la cosa più importante dovrebbe essere avere dei campionati il più equilibrati possibile”.

Prosecco DOC Imoco Conegliano

A livello di comunicazione cosa sta funzionando e cosa meno nel modo di raccontare la pallavolo?

“Lo storytelling è uno spazio che è stato ben presidiato qualche anno fa, ma poiché ha avuto un enorme successo, ora siamo difronte a un utilizzo secondo me eccessivo, fioccano ad esempio biografie di chiunque come se non ci fosse un domani. Forse bisognerebbe fare più attenzione a scegliere quali argomenti raccontare, quali temi valga la pena sviluppare”.

I social dove si inseriscono in questo discorso legato alla comunicazione in termini di quantità e qualità di informazione?

“Il modello social, attualmente dominante, non ha alcuna relazione con la qualità. L’importante è essere dentro questo flusso continuo di informazioni che corrono velocissime e che devono rinnovarsi, e tu devi esserci. Anche l’analisi tecnica che si fa del gioco, qualitativamente alta, è sempre all’interno di questo flusso che corre velocissimo, quindi non può avere il tempo di essere ascoltata con attenzione. Il calcio mercato invece funziona proprio perché è esso stesso un flusso continuo di notizie. Siamo dentro a un mondo che corre velocissimo, un mondo e un mezzo di comunicazione che premiano la provocazione e la polemica. La soglia d’attenzione è molto bassa e per un tempo sempre più ridotto. Ne sono un esempio le campagne elettorali, fatte ormai solo di slogan. Per quanto mi riguarda, non c’è alcuna voglia di essere all’interno di questo flusso che funziona per provocazioni. Non me la sento, non ho il coraggio, non ho interesse a stare dentro questo mondo. Faccio una scelta, che ovviamente è rivolta a un pubblico più ridotto, come ad esempio con After Hours o Palla Avvelenata”.

Eppure stanno tornando in gran voga i podcast, lunghi anche un’ora. Sembra quasi un controsenso, ma forse questa sbornia di contenuti mordi e fuggi ha fatto tornare l’appetito per racconti più strutturati, e di livello più alto, che richiedono invece una soglia d’attenzione maggiore.

“Su questo sfondi una porta aperta, io sono un grande appassionato di podcast. Ascolto solo podcast lunghi, perché se sono lunghi ho la speranza che siano stati pensati, che siano frutto di una rielaborazione. Sono interessato a qualcuno che si è messo lì, ha approfondito l’argomento, lo ha elaborato, lo ha rielaborato, ci ha pensato. Quello mi piace, la si può intendere come una forma moderna del libro. Questo significa, però, che hai già fatto una scelta e sei consapevole che non farai grandi numeri”.

In questo flusso di notizie e racconti, After Hours si è collocato in uno spazio tutto suo. Il tratto distintivo è il fatto che a intervistare i giocatori siano altri giocatori come te e Andrea Brogioni, caratteristica che da vita a siparietti divertenti e altri di onestà assoluta. Con giornalisti di professione questo non accadrebbe.

“Parlandone con Brogio, e con Massimo Righi ovviamente, questa era la speranza, che diventasse un luogo tra giocatori. Quando si collegano e si salutano tra di loro è un qualcosa di fantastico. Non è mica niente di speciale eh, però trovo che sia uno spazio che non si prende troppo sul serio, che non ha la voglia di fare polemiche, ma è un luogo un po’ scanzonato, un po’ destrutturato in cui a volte noi siamo anche molto buonisti, non si fa mai una critica diretta. Però l’obiettivo è questo piccolo spazio condiviso in cui c’è la tranquillità di non subire agguati di natura giornalistica, e semmai avere questa naturalezza, questa spontaneità che è la cosa più bella a cui io e Brogio siamo molto molto legati”.

Palla Avvelenata, invece, io personalmente non potrei mai ascoltarla in metro perché riderei così tanto da attirare una certa attenzione. Quanto vi divertite voi ad avere anche questo spazio con Leo Turrini?

“Ti assicuro, tantissimo. Sono molto contento che la scanzonata modalità di Palla Avvelenata sia diventata un modo per sorridere di quello che è accaduto, e questo ovviamente dipende da Leo che il migliore in assoluto nell’essere scherzosamente provocatore. Qualche volta quando prende di mira me io ci casco e divento una bestia, perché sono molto permaloso, ma ci casco nonostante sappia che questo è il gioco di Turrini. Lui in questo è davvero un mago. Entrambi questi format, lo ribadisco, rappresentano comunque delle scelte che non saranno mai virali ma dedicate a chi ha voglia di ascoltare e chi conosce e segue la pallavolo”.

A proposito di giornalisti, qual era il rapporto che avevate voi con loro e come credi sia cambiato questo rapporto oggi?

“Erano persone che vivevano con noi: Carlo Gobbi, Gian Luca Pasini, Valentina De Salvo, Flavio Vanetti, Corrado Sannucci e tutti gli altri degli anni ’90, alcuni dei quali purtroppo non ci sono più. Vivevano con noi. Loro erano esposti a qualcosa di difficilissimo perché avevano accesso a tutte le informazioni, dovevano sapere quali dovevano comunicare e quali non dovevano comunicare perché ne andava del rapporto personale. Ricordo che Lorenzo Dallari una volta mi disse: io sono un giornalista, quello che tu mi dici io lo devo scrivere, quindi non mi dire nulla che non vuoi diventi pubblico. Noi abbiamo vissuto un periodo storico in cui la pallavolo stava diventando uno sport popolare e con i giornalisti in fondo abbiamo avuto un rapporto fatto di reciproca fiducia. Con l’andar del tempo la pallavolo, così come gli altri sport, hanno dovuto fare i conti con un rapporto in cui i giornalisti sono tendenzialmente diventati dei nemici alla ricerca di qualcosa che possa far notizia, e che quasi sempre se fa notizia è perché è un qualcosa di polemico o di speciale. Ecco perché oggi c’è questa chiusura. I giocatori, di qualunque sport, sanno che meno cose dicono e meglio è. Per questo ci si rifugia nelle frasi fatte e nel non detto. L’avvento poi di internet e dei social ha fatto sì che squadre e giocatori gestiscano autonomamente la comunicazione e quindi questo ha cambiato radicalmente il rapporto. In estrema sintesi, in pochissimi anni i giornalisti sono passati dall’essere persone che vivevano con noi a persone percepite come nemici fino ad oggi che devono chiedere se possono avere accesso a delle informazioni”.

Concludiamo la nostra lunga chiacchierata da dove siamo partiti, ovvero la International Volleyball Hall of Fame: chi dovrebbe essere il prossimo italiano e la prossima italiana ad essere indotti dopo Andrea Zorzi?

“A livello femminile senza dubbio Francesca Piccinini. A livello maschile perché non Bracci? Perché non De Giorgi? Perché non Tofoli? Torno a ripetere, quella nazionale è stata eletta squadra del secolo, basta prendere tutti i nomi, metterli in un sacchetto ed estrarne uno. Qualunque esso sia, di sicuro non si sbaglia”.

Intervista di Giuliano Bindoni

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