Di Redazione
Assistere a una finale NCAA suscita emozioni sempre un po’ particolari: molti sostengono che il campionato universitario americano sia indubbiamente un evento ma che non possa essere considerato notabile dal punto di vista tecnico perché molte squadre sono improvvisate, altre vivono solo di qualche individualità; così come non tutti gli impianti sono attrezzati per rispettare le capacità degli atleti e in fondo solo pochissimi che vincono a livello universitario sono in grado di ripetersi anche da professionisti. Tutte opinioni, pro o contro, indubbiamente condivisibili ma ci sono aspetti che vanno al di là delle opinioni.
Vedere una struttura come la PPG Paints Arena di Pittsburgh gremita all’inverosimile (20mila presenze) è un colpo d’occhio impressionante. Il resto lo fanno le marching band, i fan vestiti nei modi più strani, tutti davvero appassionati per l’università che è stata la loro, magari trent’anni fa, o che è dei loro figli. È qualcosa che scavalca la nostra cultura e che non ci appartiene, qualcosa che forse, considerando lo stato di salute delle strutture sportive dei nostri atenei possiamo semplicemente invidiare. È un prologo che ci aiuta a capire come gli Stati Uniti siano riusciti a vincere così tanto nella pallavolo, anche le Olimpiadi, senza avere mai avuto un campionato professionistico.
La finale tra Stanford e Wisconsin, vinta dalle Cardinals per la seconda volta consecutiva, terzo titolo in quattro anni, ha mostrato anche lo stato di salute della pallavolo americana che indubbiamente offre l’immagine di un mondo ancora in espansione e capace di muovere enormi entusiasmi. Tra i tanti protagonisti c’è sicuramente Kathryn Plummer, atleta incredibile, capace di prendersi sulle spalle la squadra durante i play off e di salire a un livello semplicemente irraggiungibile. Ha sbaragliato le avversarie, le statistiche, persino l’immagine di Yossiane Pressley (BYU) che era stata considerata per tutta la stagione, fino alle semifinali, la miglior atleta dell’anno, salvo poi steccare proprio la partita più importante.
Kathryn (foto a sinistra) è davvero un essere umano speciale nella sua forza straordinaria che diventa la fragile ingenuità di una ragazza giovanissima: “Le mie sono lacrime di gioia – dice singhiozzando al termine del match al microfono di ESPN in diretta mondiale – ma sono pur sempre lacrime perché questo percorso è arrivato alla fine. Sono felice e orgogliosa di me e delle mie compagne, non avrei potuto chiedere di meglio: ho condiviso un’esperienza incredibile a Stanford e non la potrò dimenticare mai perché mi ha insegnato tanto anche nei momenti più difficili, come quando mi sono infortunata. Non è stato facile reggere alla pressione delle gare e agli esami ma tutto è andato nel modo migliore”.
Questa ragazzona californiana di 2.01, grandissimo talento anche sulla sabbia, con la treccia bionda forse più lunga del braccio, ha una potenza devastante nelle mani e una forza disarmante nel sorriso: lascia Stanford con due titoli e una laurea a pieni voti in biologia per andare incontro a un grande futuro. Meraviglioso il suo addio all’Università con una lunga lettera scandita davanti a un telefonino e postata su Twitter e Instagram in allegato a un messaggio breve e incisivo: “È stata una folle corsa, grazie Stanford, il mio cuore è tuo”.
Forse la migliore giocatrice in assoluto anche se la All American ha deciso di premiare con il titolo di MVP Jenna Gray (foto a destra), alzatrice, compagna di corso e di residence di Kathryn che nel mondo sportivo rappresenta un caso più unico che raro. Già oggi è considerata la più forte regista nella storia dell’ateneo, che di titoli ne ha vinti diversi, ma ora Jenna dovrà scegliere. Perché il suo talento la porta oltre la rete di pallavolo sotto la quale palleggia, mura e attacca con le capacità di una centrale e di una schiacciatrice navigata. Sa fare tutto Jenna.
Quando tutti le dicevano che era una follia fare atletica e in particolare il lancio del giavellotto con le qualità da palleggiatrice che aveva, la ragazza ha fatto spallucce: “Per me non è mai stato un problema, ho dovuto razionalizzare le mie risorse e fare tutto nel modo migliore, mi è costato un po’ più di lavoro”.
Le dicevano che il giavellotto avrebbe sbilanciato la sua forza e che non avrebbe più potuto giocare a volley. Morale della favola oggi Jenna, che potrebbe tranquillamente cominciare a giocare in Europa da professionista domani, ha deciso di restare negli States per proseguire il suo programma di atletica. L’obiettivo è andare ai Trials e trovare la qualificazione per le Olimpiadi. Il suo personal best, 57.91, che le è valso il terzo posto assoluto al campionato americano, le vale un tentativo per andare a Tokyo 2020. Se qualcuno o qualcosa non le farà cambiare idea.
Toccanti le immagini finali con le ragazze di Wisconsin che fanno cerchio in lacrime e si danno appuntamento al prossimo anno dove potrebbero davvero fare il salto di qualità. Anche Jenna e Kathryn si abbracciano in lacrime: “Oggi lasciamo qui una parte della nostra famiglia” dicono.
Un ultimo cenno lo merita la diretta della ESPN che è stata – come al solito – un evento nell’evento. Telecronaca praticamente perfetta: informata, ritmata, autorevole, piacevolissima con interventi di una chiarezza esemplare. Il telecronista era Paul Sunderland che al fianco aveva niente poco di meno che Karch Kiraly e Holly Rowe, analista di qualità impressionante: pochi interventi brevi e sempre in argomento. Tanti dati, tantissimi aneddoti. A bordo campo interviste che avevano un senso e facevano cogliere tutta l’intensità del momento con Courtney Lyle e Salima Rockwell. Fedeli alla linea dei commentatori americani (“lo spettacolo lo fanno in campo, noi dobbiamo solo raccontarlo”) sono riusciti a rendere eccezionale un evento che si commentava da solo.
Ad aggiungere gusto delle pillole splendide rubate alle ragazze durante le ore di lezione, gli allenamenti, la pizza in aeroporto di ritorno dalla trasferta con i compagni del Campus a fare il tifo inquadrati costantemente.
Si può decidere se invidiarlo o meno. Ma rispetto al nostro è davvero un altro mondo.