In Botswana: dall’ABC del volley a una Nazionale vera

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Di Stefano Benzi

Qual è la capitale del Botswana? Non vale cercare su Wikipedia… Ok, ve lo dico io: è Gaborone, 230mila abitanti circa. E c’è qualcuno che ha una minima idea di dove si trovi e quanto sia grande il Botswana? Si trova esattamente a nord del Sud Africa, una volta gran parte del suo territorio faceva in realtà parte dello stesso Sud Africa. Poi, ci furono l’indipendenza e la nascita del nuovo Stato, un paese molto giovane, indipendente dal 1964 e universalmente riconosciuto dopo la fine delle dispute territoriali con la Namibia, altro territorio meraviglioso, solo nel 1999.

Il Botswana è un paese che lotta costantemente con la desertificazione e la fuga dei suoi abitanti: un territorio enorme, grande quasi il doppio dell’Italia e senza alcuno sbocco al mare. Mentre da noi, arrampicati sulle città e accalcati nelle province vivono oltre 60 milioni di persone, da loro la popolazione non arriva a un milione e 600mila abitanti. Se facciamo un rapporto, ogni abitante del Botswana avrebbe a disposizione almeno un quarto di una provincia italiana per farci quello che vuole.

Un terreno benedetto perché gran parte della savana è stata trasformata in parco: posti incredibili come Nxai, Chobe o il delta dell’Okavango. La gente è pacifica e serena nelle sue divisioni: in Botswana si parlano otto dialetti e convivono almeno sette etnie differenti. Non ci sono mai state tensioni razziali: troppo spazio libero per litigare con un vicino che è molto lontano. Sorprendentemente il giovane paese africano ha investito molto, pur con mezzi limitati e pochissimo know-how, nello sport. Io sono diventato un fan del Botswana nel 2012, quando ho studiato la loro storia frequentandone per alcuni giorni l’ambasciata perché la loro Nazionale di calcio per la prima volta era entrata nella fase finale della Coppa d’Africa: i “Dipitse” (le zebre) non andarono oltre la fase a gironi ma già il fatto di essere presenti alla manifestazione fu un miracolo.

Ricordo che un collega fece arrivare in redazione una bandiera del Botswana che rimase orgogliosamente appesa alla mia scrivania fino a quando una delle tante dirigenti che amano l’ordine non decise che quella bandiera stonava con i mobili nuovi che aveva appena ordinato. La bandiera fu rimossa: la manager pure, un anno e mezzo dopo.

Purtroppo non trovammo più la bandiera.

La tirerei fuori oggi per dare una spinta e fare arrivare via social il mio affetto alla Botswana Volleyball Federation (BVF) che è giovanissima e ha pochissimi mezzi: ma dal 2010 è cresciuta in modo impressionante, con un gran numero di giocatori impegnati in tornei esclusivamente amatoriali. La Federazione nazionale ha una pagina Facebook con 3600 likers ma più che sui social si impegna nel concreto: ogni sei mesi realizza un camp per formare nuovi allenatori. Corsi lampo, full immersion di una settimana con tecnici che arrivano dalla Grecia, dalla Turchia, dal Brasile.

Mi piacerebbe che qualche allenatore italiano si prestasse… Ogni corso laurea una quindicina di nuovi allenatori che va sul territorio e fa quel che può e dove può. Perché c’è una cosa che il Botswana ha e a molti altri paesi manca: è uno dei paesi con l’altezza media più significativa del mondo. Non voglio usare il solito paragone idiota con i Watussi che “ogni due passi fanno sei metri” ma è un dato di fatto. L’altezza media del Botswana va ben oltre l’1.80: potenzialmente ognuno di quei ragazzi è un atleta nato. Chi studia da un punto di vista antropologico i paesi e le loro popolazioni sostiene che il Botswana e la vicina Namibia, infatti, siano una miniera di talenti sportivi.

La squadra di volley del Botswana – “Dipitse” anche loro – è una squadra di colossi cui bisogna insegnare diverse cose ma che hanno un fisico pauroso in un’epoca in cui la pallavolo è tutta potenza. Obiettivo del Botswana è qualificarsi per la Coppa d’Africa per nazioni migliorando il settimo posto di due anni fa in Egitto: quest’anno è andata male, solo un undicesimo posto nel maschile e un ottavo nel femminile. Bisogna fare molto meglio per partecipare al Mondiale. E sarebbe la prima volta.

Kagiso Meswele è il capoufficio stampa della Federazione e parla con la semplicità di chi sa di avere tanta strada da fare e pochi mezzi per farla: “Al momento abbiamo solo una competizione per club in Botswana, che è il Capital Motors Tournament, con poche squadre che ruotano intorno a Gaborone. Pensare di organizzare un campionato nazionale è impossibile per i collegamenti, le spese e le risorse che non possono essere sprecate così. Puntiamo tutto sui giovani e sulla Nazionale, sui camp e sul portare la pallavolo ai ragazzi dei quartieri, delle periferie e dei villaggi più grandi. I nostri giocatori sono grezzi, proprio come i diamanti che vengono estratti dal nostro sottosuolo, ma sono umili, imparano in fretta e hanno mezzi fisici impressionanti. E’ questione di tempo: prima o poi avremo il nostro invito per recarci alla festa”.

In questo momento, inoltre, a dare una mano al team è scesa in campo la Mascom, una compagnia di telecomunicazioni del Botswana, una delle società più importanti del paese: sarà lei a coprire i costi di un campionato e dei camp per formare il team nazionale.

Dipolelo Nkele e Tebogo Sejewe sono stati le prime giocatrici del Botswana a lasciare il paese: hanno giocato in Algeria, a Blida nel USMB, e ora potrebbero andare in Francia. Le due sono state immediatamente imitate da Tracy Chaba (nella foto), che è la prima vera stella della nazionale del Botswana. Alta, bellissima e statuaria, Tracy, che ha 24 anni ed è nata nel villaggio di Nshakashogwe, è di una fierezza impressionante. E’ stata abbandonata dal padre quando era piccola e ha trovato il suo riscatto nella pallavolo: “A mio padre ho dato una seconda opportunità questa estate quando sono tornata al villaggio e ho voluto parlargli. Lui non mi ha voluto né vedere né incontrare, non è mai stato interessato alla cosa… A tutti andrebbe data una seconda opportunità: ma mio padre non ne avrà una terza”. Chaba ha un orgoglio che è molto più alto e potente del suo 1.84: “Tutte le cose migliori di me hanno a che fare con il Botswana e le sue radici. Non mi faccio mai vedere se piango, non mostro mai cenni di sofferenza se mi sono fatta male, mangio le cose tipiche del mio paese: poche e sane, mai bevuto alcol”.

E’ una bella storia quella della pallavolo in Botswana, mai scritta e poco conosciuta. C’è ancora tanta strada da fare, tanta quanta l’immensa savana del paese dove ci si muove a piedi o con i fuoristrada e tante taniche di gasolio di scorta. I dialetti africani sono meravigliosi: sono un’infinità e con poche parole dicono moltissime cose. Nella lingua Tswana quando vuoi augurare benessere a una persona dici “pula”. Che vuole dire anche pioggia.

“Pula”, allora, al volley delle orgogliose Zebre del Botswana.

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Le storie di Stefano Benzi

Di Stefano Benzi

Diciamo la verità… quando quella lontana estate del 1984 si diceva “c’è la pallavolo, dove la andiamo a vedere”? Non eravamo molto consapevoli: un po’ perché quella non era ancora la generazione dei fenomeni che sarebbe arrivata di lì a qualche anno e un po’ perché eravamo ancora ubriachi del Mondiale di calcio vinto nel 1982. La pallavolo fino a quel momento era un parente povero e poco considerato: i canali televisivi che potevano trasmettere sport erano esclusivamente quelli della Rai. E dunque due… e mezzo: Il resto lo scoprivi alla spicciolata un po’ come il tennis o il nuoto. Eravamo impazziti per Novella Calligaris o per Adriano Panatta quando arrivò alla finale del Roland Garros. Ma il concetto di virata, di rovescio e di slide non erano per tutti. Per non parlare della vela: una volta ogni tot di anni ci ricordavamo di essere un popolo di navigatori per via di Azzurra, Luna Rossa o del Moro e si faceva la notte in bianco. Ma il senso di “cazza la randa” o di “bolina” non ci è ancora del tutto chiaro.

Per la squadra di pallavolo del 1984 non eravamo preparati: chi se l’aspettava una prodezza del genere. All’epoca lavoravo già e ricordo perfettamente uno dei miei capi – disperato – alle prese con un pezzo e un titolo sbraitava da infarto: “Come diavolo si dice – urlava in redazione – schiacciata o smash?”

A Los Angeles uno dei supertestimonial era Roberto Duran, straordinario pugile panamense che viveva in California e che era cresciuto al Chorillo, nella favela della Casa de Pedra. Da qui il suo nome: “Mano de Pedra”. Nel 1984 era all’apice: si era frantumato una mano combattendo contro Marvin Hagler (un vero animale da ring) dunque alle Olimpiadi faceva il personaggio e presenziava a tutte le gare più interessanti. Vedendo la squadra azzurra contro il Canada Duran disse… “Esta sì es una mano de pedra….”

La mano di pietra era quello di Franco Bertoli: i giocatori del Canada confessarono che quando Dall’Olio apriva lo schema su di lui la gara era a chi si spostava prima da una parte per evitare la botta. Era la generazione dei geometri: mi piace chiamarla così perché erano giocatori straordinari, certamente non ricchi, ma di feroce determinazione e di grande coraggio. Furono loro a porre basi di quanto sarebbe arrivato dopo.

Ottennero uno storico terzo posto, la prima medaglia olimpica della pallavolo italiana dopo una semifinale persa e giocata a testa alta contro il Brasile. Bertoli ha usato il granito per vincere – vado a memoria – anche sette titoli italiani, due coppe campioni e mi pare cinque Coppa Italia. Poi ha fatto l’allenatore, ricordo delle belle interviste con lui a Roma nel 2000, il dirigente e l’amministratore pubblico. Appassionato di statistica, è un grande studioso di numerologia. Un uomo simbolo cui hanno fatto una cattiveria: qualcuno si è introdotto in casa sua e gli ha svaligiato l’appartamento portandosi via anche la medaglia di bronzo di Los Angeles 1984. Anche se fosse d’oro il suo valore sarebbe davvero minimo: le medaglie sono placcate e simboliche, hanno un peso solo per chi le ha vinte e per chi eventualmente le colleziona.

Cari signori ladri, a Natale, siamo tutti più buoni… cogliete una buona occasione per fare una bella figura. Fate un pacchettino, mi raccomando con tanta bella carta per evitare gli urti, e spedite il tutto a Franco Bertoli, presso C.O.N.I. Largo Giulio Onesti 1 Roma. Là sapranno come recapitarla a una mano di pietra che per vostra fortuna non avete trovato in casa mentre stavate facendo pulizia. Perché Bertoli ha sessant’anni ma se li porta alla grande; è di Udine – gran testone – è 1.92 per novanta chili di muscoli e le mani di granito le ha ancora. Io uno così lo vorrei avere tutta la vita dalla mia parte.

E poi, che ve ne fate di una medaglia che non meritate?