Ogni volta che mi ritrovo di fronte a Bruno Mossa de Rezende, mi viene in mente un passaggio di una conversazione tra la giornalista Daria Bignardi e l’attrice Valeria Golino. La prima, arrivata a metà dell’intervista, dice testualmente: “Ma allora è vero ciò che si dice di te. Che quando entri in una stanza, seduci qualunque persona che ti ritrovi davanti“. E se dovessi effettuare un volo pindarico tra la cinematografia e lo sport, credo che questo sia l’effetto che a me e molti colleghi faccia ogni conversazione fatta nel passato e nel presente con Bruno.
La sua capacità di riempire la stanza di luce abbagliante con il suo carisma e la sua personalità, le sue emozioni e il vissuto è palpabile. E leggendo le pagine del suo libro “Dal buio all’oro“, edito da Rizzoli, e scritto con Gian Paolo Maini e Davide Romani, si ha la sensazione che quest’atmosfera abbia accompagnato la vita di tutti quelli che con Bruno hanno avuto a che fare. A cominciare dal collega Leo Turrini che, nella postfazione, dice che “lui sta al volley come Ayrton Senna stava alla Formula 1 e Pelé al calcio“.
“Quando ho letto la postfazione – ammette il regista della Valsa Group Modena – ho pensato che fosse esagerato. Quello che mi ha fatto piacere è che Turrini abbia vissuto tantissimi sportivi, e ha vissuto anche me. Mi ha accomunato a due leggende del mio paese che sono riconosciuti per il carisma e i valori che hanno espresso dentro e fuori dallo sport. Mi ha davvero emozionato leggere quel passaggio, sono onesto“.
Il libro parte dal 2012. La sconfitta di Londra. Perché la scelta di partire dal buio?
“Perché è stato il momento più duro della mia carriera, e da quel punto in poi volevo svelare il percorso che ho dovuto fare per migliorare e per cercare un equilibro mentale e fisico, non solo per raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato, ma anche per riuscire a gestire meglio le mie emozioni, in maniera più tranquilla. Noi sappiamo che gli sportivi vivono una vita di pressioni, e può capitare di arrivare ad un momento in cui non sei più in grado di gestirle. Io ho cercato un supporto per gestire tutte le mie imperfezioni, per cercare di capirmi, attraverso una persona, un coach, che mi ha aiutato e mi aiuta molto. Sono partito da lì, tornando indietro nel tempo, ma partendo proprio da un momento, quello dell’oro mancato a Londra, in cui il mondo è sembrato mi cadesse addosso“.
Giuliano, il mental coach, entra nella sua vita quando vive un momento di burn-out.
“Racconto nel libro che è iniziato tutto nel 2010, quando ho cominciato a sentire la paura delle scelte, del gioco che facevo. Ho scelto di scriverlo perché oggi siamo molto più tranquilli nell’affrontare certi temi. Nello sport, fino a pochi anni fa, questi erano dei tabù, o era un qualcosa per cui si faceva fatica ad esporsi“.
Posso chiederle se, all’uscita del libro, c’è stato qualche giocatore che l’ha ringraziata per essersi esposto così, un po’ a nome di tutti quelli che vivono determinate situazioni?
“Sì, ho ricevuto dei messaggi da parte di giocatori con i quali non avevo un rapporto così stretto. Avversari, magari persone con cui ho giocato contro solo qualche volta, che mi hanno mandato dei bellissimi messaggi. Sono felice di poter aiutare in questo altri che vivono o sentono ciò che ho sentito io durante questo percorso“.
È un libro onesto, sincero, a tratti crudo. Si capisce che lei le storie di sport le ha lette, e parecchio.
“Confermo. Tra le mie preferite c’è quella relativa a Nadal, nella quale Rafa mostra le sue insicurezze e le racconta come il punto di partenza di un percorso che poi lo ha portato verso la vittoria e verso la realizzazione dei suoi obiettivi. Lui oggi entra in campo ed è sempre un guerriero. Mentalmente è molto preparato e, se non conoscessi la storia, non capiresti quanto abbia sofferto quando sono emerse determinate fragilità“.
Nel percorso terapeutico che ha fatto, ricollega l’origine delle sue difficoltà alla separazione tra suo padre Bernardo e sua madre Vera. Le posso chiedere se entrambi hanno letto il libro e quale è stata la loro reazione?
“Papà ne ha parlato in un’intervista. Mamma non lo ha ancora letto. Ma dovevo e volevo essere sincero. Ho capito che quel momento, avevo otto anni, vivevamo in Italia perché papà e mamma allenavano e giocavano qui rispettivamente, è stato il primo momento in cui la terra è franata sotto i miei piedi. Le conseguenze le vivi nel quotidiano, anche se loro hanno gestito benissimo questa relazione. Io non ho mai voluto parlare di quel momento, ma averlo affrontato da grande, mi ha insegnato che ad un certo punto della vita certi traumi riemergono e vanno affrontati“.
Chi o cosa l’hanno salvata in quel momento?
“La pallavolo, certamente. Ma anche i parenti, mia zia, mio cugino, con i quali ho trascorso dei bellissimi periodi e gli amici e le persone da cui ho ricevuto lungo tutta la vita, molto affetto“.
L’amicizia è un tema molto sentito nella sua opera. Due sono le persone che classifica come fratelli: Neymar Jr. ed Earvin Ngapeth. È chiaro a tutti che lei, per Ngapeth, sia stata una medicina dell’anima.
“È un’amicizia nata in modo naturale. Il suo arrivo, il nostro inizio a Modena. Ho avuto l’intelligenza emozionale di rapportarmi con una persona come Earvin, così diversa da me ma così vera, bella, autentica. Abbiamo capito di vivere la pallavolo allo stesso modo, come fosse un’ossessione. Lui ha un cuore gigantesco e alle volte questa passionalità viene fuori in maniera irruenta. Il nostro rapporto è sempre stato basato sull’onestà. Abbiamo litigato, discusso, ci siamo sempre confrontati. È il dialogo, l’apertura verso l’altro ad aver guidato la mia carriera. Sono sempre stato del parere che parlare e confrontarsi migliorino l’ambiente e le relazioni umane. Con me Earvin ha trovato una persona onesta che, esattamente come suo fratello Swan, lo ha sia protetto, sia dimostrato fratellanza e amicizia“.
A proposito di relazioni umane, non possiamo parlare degli allenatori incontrati. A parte l’intensa relazione professionale con suo papà Bernardo, dedica parole particolari a Lorenzetti e De Giorgi.
“Sono quelli, a cui aggiungerei anche Giani, che mi hanno toccato in maniera più profonda e mi hanno insegnato tanto. Ho incontrato Angelo sulla strada per Rio, e qui a Modena abbiamo vissuto delle sensazioni e delle emozioni uniche. Lorenzetti mi ha aiutato a capire l’importanza del non assumermi tutte le responsabilità e le colpe. Fefè alla Lube ha avuto lo stesso approccio di Angelo, nel farci sentire parte di qualcosa di bello e importante. Giani era il mio mito sin da bambino, e averlo come allenatore è stato importante perché ci siamo raccontati e confidati tanto in momenti per noi determinanti“.
La sua storia, a livello di club, più importante è quella attuale, ossia Modena Volley. Nel libro ha ampio spazio la narrazione dell’anno dello scudetto. C’è un passaggio che svela chi sia davvero Bruno Mossa De Rezende. Ed è un dialogo in cui lei e Luca Vettori vi mettete l’uno a disposizione dell’altro.
“Credo anch’io che sia un passaggio cruciale. Il miglioramento della mia persona passa anche da confronti come quello avuto con Luca, ma non solo. Negli anni ho incontrato tanti compagni, con i quali ho capito che della diversità dovessimo farne un valore aggiunto. La maturità professionale, in quel senso, le consapevolezze maturate durante il percorso, mi hanno fatto cambiare approccio e prospettiva. Un giorno ci siamo parlati, gli ho chiesto di aprirsi, perché vivere le cose in maniera differente non significava non poter dare entrambi il cento per cento. Ho imparato a capirlo. Ed è stato un punto nevralgico del nostro anno e del nostro rapporto“.
C’è spazio anche per l’anno di Stoytchev. Posso chiederle se è più capitato di dover ricucire strappi così netti?
“No, ma anche quegli incontri ti lasciano qualcosa, soprattutto come insegnamento. Volevo creare un buon rapporto con lui, volevo portarlo a parlare con la squadra e risolvere alcune frizioni che si erano create durante la stagione. Io sono fatto così, non riesco a lasciare irrisolte le questioni, anche familiari o private ad esempio, non solo nella pallavolo. Dobbiamo lavorare assieme, stare tutti in una dimensione comune e confrontarci se qualcosa non va. Avevamo due modi di intendere i rapporti umani diversi e non ci siamo trovati. La vita dimostra che non si può avere una relazione ottima con tutti, anche sul lavoro“.
Ha mai pensato che fosse un tema culturale? Lei cita ad esempio la convivialità brasiliana, da cui anche Bagnoli, ad esempio, rimane affascinato e stupito.
“Siamo soliti riunirci davanti a un barbecue in Brasile. È riduttivo pensare che i sudamericani scelgano questi momenti solo per sedersi a tavola e mangiare la carne e bersi una birra. È un’occasione per creare un’atmosfera, un gruppo, parlarsi fuori dalla palestra, viversi e creare una lealtà all’interno di una squadra. Sono felice di averlo fatto a Civitanova, ad esempio“.
Mi dice cosa significa Modena nel suo presente e nel suo futuro?
“Io sono nato in Brasile. Casa mia è e sarà Rio, dove vive papà e dove anche io ho casa, o Campinas, dove invece vive mamma. Modena è, se vogliamo trovare un paragone che fa sorridere, la mia casa al mare o in montagna. È un luogo in cui mi rifugio, che ha fatto del mio passato e farà parte del mio futuro. È un luogo in cui ci sono persone, affetti, emozioni che resteranno per sempre“.
De Giorgi ha detto che ogni tanto lei fa fatica a capire cosa è Bruno. Lei è consapevole del fatto che ha convertito molti tifosi a tifare per il suo paese, ad esempio? Capita a pochi, mi viene in mente Pelé.
“Be’, questo è un vanto per me. Alcuni tifosi modenesi mi hanno confessato che, quando ho vinto contro l’Italia a Rio, erano certamente dispiaciuti per il vostro paese, ma la gioia di vedere me con la medaglia d’oro al collo li ha resi orgogliosi, perché a Modena mi hanno sempre sostenuto. Ma è capitato anche a me. Penso a quando ho visto Earvin a Tokyo piangere per la medaglia d’oro, ed io, che la medaglia l’ho persa contro l’Argentina, ho festeggiato lui, perché è un fratello che ha vinto il titolo olimpico e così doveva essere. Credo che siano momenti in cui una persona deve dimostrare i propri valori, in quel caso l’amicizia. Non potevo non essere felice ed orgoglioso di lui in quel momento. Bruno Mossa De Rezende è questa persona qui, ecco“.
di Roberto Zucca