Di Stefano Benzi
In queste ultime settimane il calcio sta sperimentando qualcosa che molti altri sport hanno accettato da tempo: la tecnologia video in appoggio alle decisioni arbitrali. Si chiama VAR, e attenzione: perché anche un dettaglio come un acronimo ha la sua importanza. VAR sta per Video Assistant Referee. Inizialmente doveva chiamarsi VART, Video Assistance Referee Technology ma i parrucconi della Fifa, per non avere addosso gli arbitri che hanno il terrore di essere delegittimati, hanno tolto la parola tecnologia e attribuito il termine di assistente all’arbitro e non al mezzo. In questo modo il direttore di gara, oltre a guardalinee e quarto uomo, ha due arbitri in più in appoggio. Questi arbitri, un titolare e un assistente (perché il loro parere per prendere una qualsiasi decisione deve essere unanime in accordo con l’arbitro) si trovano in una dark room e visionano l’episodio dubbio insieme al direttore di gara che ha a disposizione un monitor ad alta definizione a bordo campo. Il VAR, maschile – perché non si parla più di una tecnologia ma di un arbitro che interpreta la tecnologia – ha interpretato alcune situazioni dubbie: una gomitata dell’argentino Martinez che è stato espulso dopo lo slowmotion oltre al rigore contro l’Italia per una trattenuta su De La Cruz nel match con l’Uruguay, rigore poi per altro sbagliato. Ma è anche accaduto che un presunto comportamento violento di un giocatore coreano, che rialzandosi da un contrasto aveva calpestato il polpaccio di un avversario, sia stato giudicato involontario. Ogni episodio richiede mediamente dal minuto ai tre minuti. Il gioco si ferma con il fischio dell’arbitro che su propria intuizione o su segnalazione della dark room si rivolge al VAR.
Sono stato lungo? Spero di essere stato chiaro. Perché in realtà quello che sembrava essere una cosa semplicissima è diventata molto complicata e lenta anche se applicata in un torneo giovanile e dunque con poche proteste e molta civiltà. Non so come nel campionato italiano, con il suo tasso di litigiosità, una cosa del genere possa essere applicata. Io sono d’accordo per l’applicazione della tecnologia ma su episodi evidenti e senza coinvolgimenti eccessivi. Una cosa rapida insomma…
Ho pensato all’applicazione del videocheck sperimentata in questa stagione sui campi di SuperLega e A1 femminile e ho provato a pensare cosa sarebbe successo nel calcio se, com’è accaduto più volte, il server salta e il videocheck non c’è: magari per un set e mezzo, o addirittura per tutta la partita. O se la telecamera che deve evidenziare un fondo campo è leggermente fuori asse perché urtata da una pallonata o da un giocatore. O se la telecamera posizionata sopra la rete oscilla in modo tale che è impossibile verificare una invasione. Cos’è successo nella pallavolo? Niente, assolutamente niente.
Il pubblico viene avvertito dell’assenza del videocheck, le squadre lo sanno e si prosegue alla vecchia maniera: con la vista degli arbitri e il buon senso. La telecamera fuori asse viene allineata con buona pace di tutti e se proprio dal video non si capisce cosa è accaduto, il punto si rigioca. Il mugugno sta a zero e viene subito sovrastato dalla ripresa del gioco.
Il tutto, è bene precisarlo, con mezzi infinitamente inferiori a quelli del calcio: le telecamere del videocheck sono web-camera robuste e resistenti ma certo non dotate di un’ottica superprofessionale o straordinariamente definita. L’hawk-eye del tennis è costato milioni di dollari: all’immagine orientata da una telecamera a superdefinizione è stato applicato un software di animazione che mostra esattamente la posizione della pallina al momento del rimbalzo sul campo. La percentuale di errore è dello 0,01%. I giocatori guardano l’immagine sul maxischermo e si fidano. Punto.
Su un campo di calcio di massima serie ci sono non meno di dodici telecamere ognuna delle quali ha il proprio server che immagazzina ogni singola immagine per qualsiasi slow-motion. Una massa di dati impressionanti e precisissimi: utili magari al giudice sportivo che può analizzare gli episodi con calma, un po’ meno all’arbitro cui è chiesto di consultare il VAR per un minuto al massimo. Non ci è riuscito nessuno… La paura dell’interruzione del gioco c’era ed è reale: persino superiore a quanto si temeva.
Continuerò a seguire con interesse e curiosità la navigazione del calcio verso le nuove tecnologie e come queste verranno fatte digerire agli arbitri, che a quanto pare hanno deciso di appropriarsene e gestirle in prima persona, e soprattutto alle squadre e ai tifosi. Il volley, con solo un anno di anticipo è già molto avanti: perché sta utilizzando una regola che molto spesso manca a calciatori, tifosi e arbitri. Il buon senso.