Di Redazione
Matteo Dall’Angelo allenatore del Chorus Volley-Bergamo Academy, ha sempre goduto di ottima salute ma si è trovato – e si trova tuttora – ad affrontare il calvario del Covid-19.
Il 35enne di Luzzana è stato intervistato da Giordano Signorelli per Prima Bergamo, dove parla proprio della sua partita più difficile contro questo assurdo virus.
Dall’Angelo, quando ha accusato i primi sintomi? «Il 9 marzo ho iniziato ad avere febbre alta con nausea, emicrania e astenia. Mi curavo con antipiretici e antibiotici, ma la temperatura non calava se non con docce gelate e ghiaccio. Dopo dodici giorni a casa, a causa di problemi respiratori mi hanno portato in ospedale a Bergamo. Dopo due giorni in pronto soccorso è arrivata la positività al tampone e sono stato trasferito negli infettivi. Visto il peggioramento della situazione, ho messo il casco respiratorio per tre giorni e sono stato curato con metodi sperimentali. Poi, dopo altri dodici giorni, sono stato trasferito all ospedale di Trescore, mi sono staccato dall’ossigeno, ho ricominciato ad alzarmi dal letto e a riprendere la mia indipendenza. Ho rifatto il tampone a distanza di diciannove giorni dal primo, ma è risultato ancora positivo. Allora è scattato il trasferimento all’Hotel Best di Mozzo, in cui sono rimasto cinque giorni prima di completare la quarantena a casa. Ora attendo di poter ripetere il tampone».
Dopo oltre quaranta giorni è ancora positivo. Ma come sta? «Sicuramente meglio. Sto recuperando peso, ho perso dieci chili. I parametri sono buoni e non ho più avuto sintomi. Faccio fisioterapia sia per l’apparato respiratorio che per quello neuromuscolare».
C’è stato un momento in cui ha pensato di non farcela? «In realtà l’ospedalizzazione l’ho vissuta bene. Certo, ci sono stati momenti difficili, come il confrontarsi con casi gravi, la paura nel trascorrere giorni con il casco non sapendo se potessi sopportarlo, o peggio ancora il vedere con i miei occhi uscire davanti al mio letto la bara con la mia compagna di stanza. Paradossalmente, la paura maggiore l’ho avuta quando i medici mi hanno detto a fine ricovero quello che avevo rischiato con i miei valori sanguigni. Il mio problema non è stata solo la desaturazione, ma il rischio di trombi ed embolie dovute alla mia lunga convalescenza a letto».
Lei è anche padre. Quanto è pesato e pesa stare lontano dalla famiglia? «Molto. All’inizio riuscivo a comunicare solo via sms, perché con l’ossigeno non riuscivo a parlare. Poi abbiamo iniziato anche a sentirci. Mi arrivavano le foto dei disegni realizzati dai miei figli Ludovico e Lucrezia e questo mi aiutava moralmente nella battaglia. Ora che sono a casa riesco a comunicare con loro, ma niente abbracci perché vivo isolato in una stanza. In questi momenti di angoscia e lontananza capisci quanto nella vita normale diamo per scontato tutto, quando invece dovremmo viverci di più le piccole cose. Tuttora ricevo chiamate quotidiane di amici che mi fanno sentire la loro vicinanza e devo dire che l’aiuto e l’incitamento danno quella la carica che fa la differenza. Sentire il loro affetto ti fa comprendere da quanto bene sei circondato ogni giorno».
Che idea si è fatto di questa malattia? «E tutto in divenire. Ogni giorno si scopre qualcosa di nuovo, ma è molto aggressiva. Probabilmente le mie difese immunitarie non erano granché in quel periodo, ma quando ti colpisce non è dato sapere le conseguenze».
Lei è anche allenatore di pallavolo. Come crede possa (e quando) ripartire questo mondo? «Credo che finché non sarà trovato un vaccino o un farmaco, saremo sempre un po’ a rischio. Sicuramente cambierà il palcoscenico a ogni livello, perché ci saranno società che faranno fatica a ripresentarsi a settembre. Si dovrebbe pensare a una formula che consenta delle soste qualora fosse necessario un nuovo stop, senza dover annullare di nuovo la stagione».