Di Redazione
Applicare il modello NBA al volley è un orizzonte possibile, purché sia articolato in una dimensione europea e basato su una comunione d’intenti tra Federazioni e club. Ad affermarlo è Dino Ruta, professore di Leadership & Sport Management della SDA Bocconi e direttore dello Sport Knowledge Center presso la stessa SDA, sulla scorta della sua esperienza nel campo dell’organizzazione e gestione delle diverse discipline sportive. Nella nostra intervista analizziamo con lui un possibile scenario di sviluppo del volley in seguito al periodo di crisi legato alla pandemia di coronavirus, che, spiega il professor Ruta, “come tutti gli episodi di shock, può essere utilizzato dall’industria a proprio vantaggio“.
Professore, come può uscire il volley da questo momento difficile?
“Diciamo che il mondo della pallavolo si trova di fronte a un bivio molto importante. Bisogna creare un sistema di governance che valorizzi di più il prodotto a livello commerciale, e l’iniziativa deve prenderla la Lega, che è la Confindustria della pallavolo. C’è la possibilità, direi la necessità, di organizzare un campionato di livello europeo, con divisioni di profilo nazionale o per macroregioni“.
Questo significherebbe una rottura con le Federazioni?
“No, bisogna assolutamente evitare l’errore commesso ad esempio nel basket, con la separazione tra FIBA ed Eurolega. Dovrebbe essere creata una Lega indipendente, ma attraverso un accordo con la CEV o direttamente con la FIVB. Poi, certamente, questa entità dovrebbe essere autonoma da molti punti di vista, primo fra tutti quello della raccolta dei fondi“.
Ma la nascita di una Lega europea, per come lei la immagina, farebbe sparire i campionati nazionali?
“No, anzi. I campionati nazionali diventerebbero l’equivalente di quello che sono le conference in NBA. Il campionato italiano, ad esempio, continuerebbe a esistere e ad attribuire lo scudetto, ma sarebbe la divisione di una competizione più ampia, di respiro europeo. Altri paesi, penso per esempio ai Balcani, potrebbero unirsi in divisioni sovranazionali. Poi le squadre meglio classificate andrebbero a giocarsi il titolo europeo in un periodo ben definito dell’anno, poniamo da febbraio ad aprile, con la formula dei play off o in gara secca, quella che funziona di più da un punto di vista spettacolare“.
Quindi un campionato dalla durata più breve dell’attuale…
“Penso a un numero ridotto di squadre e a una formula semi-chiusa, come è stata la Superlega negli anni delle franchigie. Quando dalla Serie A2 emerge una realtà competitiva e con i requisiti giusti, potrebbe essere portata nella massima serie. Per l’assegnazione dello scudetto si può valutare: si potrebbe ad esempio attribuire il titolo di campione al termine della regular season, per dare più valore alla fase iniziale, o anche disputare una finale tra prima e seconda classificata“.
E una Lega di questo tipo chi dovrebbe guidarla?
“A mio avviso un progetto così attrarrebbe dirigenti di profilo internazionale che sanno come commercializzare i prodotti sportivi, tra media, sponsor e ticketing. Leve che il volley non ha mai sviluppato in modo ampio a livello di club. Dovranno essere persone che conoscono la pallavolo, naturalmente, ma che soprattutto la amano. Lo sport ha bisogno di dirigenti che sanno unire passione a competenze manageriali“.
Nel volley europeo però non sono molti i campionati di qualità: per il maschile pensiamo a Italia, Polonia, Russia e pochi altri.
“Proprio per questo i paesi più piccoli potrebbero ottenere un beneficio, unendosi in macro-regioni. Ci sono tanti stati in cui non esiste un campionato di livello, ma in compenso le nazionali sono competitive. Questo approccio permetterebbe anche ai club che non hanno una grande concorrenza in patria di competere ed essere valorizzati a livello europeo, molto più di quanto facciano nelle Coppe attuali“.
In generale, quali sarebbero i vantaggi di questo approccio?
“Innanzitutto l’omogeneità dei regolamenti e il respiro internazionale della competizione. Si potrebbero stabilire regole comuni per la distribuzione dei ricavi e definire un tetto salariale. Il prodotto avrebbe un interesse per tutti i paesi europei, con sponsor e broadcaster internazionali, come avviene oggi per gli Europei o i Mondiali. In questo momento le potenzialità ci sono soprattutto nel settore maschile, ma sono convinto che una piattaforma del genere possa attrarre più investitori anche nel femminile“.
La mancanza di investitori, in effetti, è sempre stato un grande problema del volley, nonostante il suo grande seguito. Per quale motivo, secondo lei?
“C’è una regola chiara nello sport: la credibilità della governance determina la capacità di attirare investimenti. Oggi la pallavolo non è un prodotto commerciale e non genera un guadagno, è gestita solo grazie all’apporto di ‘mecenati’. La chiusura anticipata della stagione è un esempio: dimostra una mancanza di unitarietà che non è più sostenibile. La soluzione è aumentare le dimensioni e il raggio d’azione, come hanno fatto tante grandi industrie“.
Questa formula sarebbe applicabile anche ad altri sport?
“La vedo più facile nel volley, per vari motivi: innanzitutto i campionati nazionali sono talmente piccoli che il passaggio al sistema delle conference non comporterebbe una rivoluzione, come invece avverrebbe nel calcio. Il sistema dei play off esiste già ovunque, e verrebbe accettato facilmente. E poi la pallavolo, rispetto ad altri sport, ha un valore trasversale: è una disciplina di punta sia nel maschile sia nel femminile, copre tutte le stagioni tra indoor, Beach Volley e Snow Volley. Un potenziale pazzesco, che deve essere sfruttato“.