Di Paolo Cozzi
Per il grande pubblico è stato per molti anni il capitano della nazionale, per i tifosi di Trento uno dei gladiatori che hanno a lungo dominato in Italia, Europa e nel mondo, per i più appassionati è l’atleta che con una serie di battute float incredibili ha regalato all’Italia la qualificazione a Pechino 2008 in un match ormai perso contro il Giappone. Ma per tutti Emanuele Birarelli è semplicemente il Bira, centrale moderno, anticipatissimo in attacco e con un “fiuto” infallibile a muro.
All’alba dei 39 anni, dopo due stagioni a Verona in cui è riuscito ancora una volta a regalare giocate importanti, ha deciso di appendere le scarpe al chiodo e allontanarsi da quel taraflex dove ha versato tanto sudore per arrivare al vertice del volley mondiale. Ma per fortuna ha deciso di rimanere nel nostro Mondo, entrando nella scuderia del noto procuratore sportivo Luca Novi, non più come atleta, ma come agente. Con lui abbiamo fatto una bella chiacchierata, ricca di spunti interessanti, partendo da ciò che ha rappresentato Emanuele Birarelli nel mondo del volley.
È stato capitano sia in Nazionale che in club, un grande onore immagino! Cosa vuol dire veramente ottenere questo riconoscimento?
“Innanzitutto, tra tante cose che mi sono capitate in carriera, essere capitano è quella che mi ha reso più orgoglioso. Al di là dei trofei, delle vittorie, delle coppe sollevate, essere riconosciuto come una persona che poteva rappresentare un gruppo di giocatori molto forti è stato qualcosa di molto grande. Soprattutto per me, che mi sono sempre sempre sentito uno che veniva dal basso: complice anche un infortunio, sono arrivato tardi nel volley di serie A e ho dovuto sudare per arrivare al vertice.
Sicuramente ‘orgoglio’ è la parola più calzante, dopodiché mi viene in mente anche il termine ‘responsabilità’, che l’essere capitano si porta dietro. In tutta la mia carriera ho sempre provato a trascinare i compagni con l’esempio, ma non sempre è sufficiente, perché ogni tanto servono anche le parole! Ho giocato con tanti atleti, diversi fra loro sia caratterialmente che come modo di intendere la vita: mi auguro che abbiano visto in me un modello positivo, che abbiano portato a casa qualcosa di quello che cercavo di trasmettere loro“.
Di solito il capitano può essere scelto dalla società perché ben rappresenta i suoi valori,oppure dall’allenatore che ne individua le potenzialità come leader. Altre volte è la squadra stessa che “elegge” un giocatore a guida morale dello spogliatoio. La sensazione è che lei racchiudesse un po’ tutti questi aspetti in un’unica figura.
“Non avevo mai riflettuto su questi tre aspetti, ma mi ci ritrovo molto! Sicuramente in nazionale, come è ovvio che sia, un pochino l’anzianità conta, a maggior ragione rispetto a un club, dove si guarda magari più alla storia di un giocatore all’interno della società, e rispetto alla scelta di un allenatore che ad inizio anno deve scegliere una guida per il gruppo.
In nazionale sono entrato nel 2008 e sono passate 5-6 stagioni prima di arrivare ad avere l’esperienza per fare il capitano. È stata un’enorme soddisfazione, ma anche una grande responsabilità. Se penso alla squadra di Rio 2016, quella che forse è entrata di più nell’immaginario collettivo, era una formazione zeppa di campioni e io mi sentivo il punto di unione fra la vecchia e la nuova generazione. Soprattutto, tanti dei nuovi li avevo visti crescere e per loro ero come un fratello maggiore, un punto fermo cui appoggiarsi in caso di bisogno“.
Visto da fuori, da avversario, ha sempre dato la sensazione di essere un leader silenzioso, una figura capace di farsi capire senza dover imporsi a forza, anche se immagino che siano capitate situazioni in cui ha dovuto “alzare la voce”.
“Sì, io sono stato sempre molto esigente verso me stesso, e questo mi portava a esserlo anche nelle situazioni di squadra in allenamento. Visto in maniera superficiale potevo sembrare un rompiscatole, però credo fortemente che in mezzo al gruppo ci sia bisogno di qualcuno che faccia capire quali sono le situazioni tecniche e tattiche accettabili e quelle non accettabili, perché altrimenti il livello scende troppo. Non è mai facile trovare il bilanciamento giusto fra i due aspetti, inoltre c’è già un allenatore che si occupa di questo; però se si vuole lavorare ad alto livello bisogna essere molto esigenti con se stessi, e il fatto che io lo fossi nei miei confronti, che non tollerassi di commettere errori banali, mi aiutava nell’essere da esempio per gli altri“.
Questa frase secondo me racchiude tutto lo spessore di Birarelli atleta, e andrebbe appesa in tutti gli spogliatoi d’Italia. Se si vuole puntare in alto bisogna pretendere da se stessi e dare l’esempio ai compagni! Lei si è chiamato rompiscatole, altri usano il termine “cane da allenamento”, cioè quella figura capace di imporsi sui compagni quando la squadra abbassa la concentrazione in allenamento… è un po’ una figura che si sta purtroppo perdendo oggigiorno?
“È così, purtroppo, ed è il motivo per cui non è cosi facile costruire una squadra vincente. C’è la necessità di avere un mix di esperienza e giovani, ma serve soprattutto una figura che riesca a capire quando il gruppo non sta dando il massimo e lo riporti sulla via dell’attenzione. Forse questa figura si è un po’ persa perché qualche ragazzo della nuova generazione, anche se non mi piace generalizzare, è un po’ permaloso e accetta meno certi confronti, ma quando si fanno queste cose non si va mai sul personale, si pensa sempre al bene della squadra.
Credo che il punto vero sia costruire un rapporto di fiducia alla base, investire del tempo per creare una conoscenza reciproca, e dentro questo rapporto imparare a tirare la corda e lasciarla in base alle esigenze. Solo cosi si potrà rendersi utili e non essere visti come una figura esterna che ti rompe le scatole e basta. Per questo ho sempre cercato di essere in connessione con i miei compagni, per essere sicuro che capissero la parte positiva e propositiva dei miei interventi. Io poi ho sempre provato ad usare due ‘file’ diversi in allenamento e in partita, perché devo dire che in partita è meglio lasciar correre sulle cose e non destabilizzare, mentre in allenamento si hanno molti più margini per confrontarsi“.
Lei è stato un centrale molto completo, maledettamente fastidioso con la battuta float, costante, solido e preciso a muro, anticipatissimo in attacco. Ma per il mondo del volley è soprattutto l’uomo del miracolo in battuta al torneo di qualificazione olimpica di Tokyo 2008…
“Questa nomea sulla battuta, grazie anche all’episodio di Tokyo, mi ha sempre accompagnato, ne ho sempre fatto un punto di forza e ho cercato sempre di farmi valere. Quasi tutti i centrali top del panorama mondiale hanno una battuta al salto molto aggressiva, quindi ho dovuto sudare e lavorare parecchio per rendere il mio servizio estremamente competitivo. Per molti sono stato considerato un muratore piuttosto che un attaccante, ma in realtà grazie al mio anticipo ho sempre viaggiato su percentuali alte in attacco (spesso e volentieri ben oltre il 60%, n.d.r.), anche se poi forse mi è mancato attaccare palloni staccati e la tesa, ma erano giocate che si addicevano poco alle mie caratteristiche. A muro ho sempre lavorato tanto per la lettura del gioco, e non essendo un gran saltatore ho sempre dovuto conquistare i muri con la tecnica e la tattica, con la testa.
Tornando a quella serie di battute, sono molto legato a quel match, che era uno dei miei primi in nazionale, perché feci molto bene anche in attacco e muro, per cui lo ricordo sempre con un sorriso. Se posso, aggiungo che quella serie fu molto importante, però ho un’altra serie sempre al servizio di cui sono molto fiero, che ricordo come un momento importante anche se poi le luci dei riflettori si sono posati su altri gesti tecnici (gli ace di Zaytsev e il muro finale di Buti), ed è la semifinale contro gli USA a Rio 2016. Abbiamo perso due set in maniera secca, ma il primo dei set vinti l’abbiamo portato a casa ai vantaggi grazie a due miei ace consecutivi, che reputo ancora più chiave di quelli contro il Giappone“.
È stata una sua caratteristica innata quella di osare con la float anche dopo il 20 o ha avuto degli allenatori che l’hanno spinta ad essere sempre molto aggressivo? Di solito, nei finali di set, i battitori float tendono ad essere un po’ più conservativi rispetto a chi batte al salto.
“In realtà ho avuto tanti allenatori che nei momenti caldi mi chiedevano di limitare il numero di errori ed il rischio. Diciamo che ho sempre pensato a migliorare tecnicamente, perché secondo me tanto passa da lì. Non è solo una questione di testa saper gestire la battuta dopo il 20, ma ci vuole anche una solida certezza tecnica alle spalle. Se hai la coscienza della tecnica che ti supporta, allora puoi provare a superare scogli difficili, come una battuta sul 24 pari in una semifinale olimpica! Mi sono cercato spesso degli spazi in allenamento per provare a fare uno step in più,passando per un periodo fatto anche da tanti errori, ma per approdare ad una consapevolezza e ad una crescita tecnica importante“.
A sentirla parlare cosi mi viene da pensare che ha tutte le carte in regola per fare l’allenatore, invece ha scelto un percorso diverso. Ce lo vuole raccontare?
“Credo che sia normale per atleti di alto livello avere un approccio preciso e meticoloso al lavoro in palestra, però in questa fase della mia vita, dopo tante esperienze lavorative in giro, cercavo una situazione più stabile rispetto alla vita dell’allenatore, che comporta anche tanti compromessi con la vita familiare. Così è nata l’idea di appoggiarmi alla scuderia di Luca Novi e dargli una mano nella veste di procuratore“.
Come ha vissuto da atleta il rapporto con il suo procuratore, e quali aspetti saranno i cardini in questa sua nuova esperienza?
“È un mestiere molto complesso, fatto da tante sfaccettature. Ovviamente non ho l’idea del procuratore come una figura che ti vende ad una società, ti fa fare un contratto e poi sparisce, ma lo interpreto come una persona con cui ci si può confrontare, come una persona di fiducia, che ti può supportare nelle decisioni, nella crescita e che ti affianca non solo negli aspetti economici e contrattuali. È una figura che secondo me è parte integrante del percorso di ogni atleta, per questo penso che la scelta del procuratore e il rapporto con l’atleta sia fondamentale.
La scelta è e deve essere sempre fatta dal giocatore, ma il procuratore deve offrire valutazioni diverse in base al tipo di giocatore che gestisce. A volte si privilegiano aspetti economici, altre scelte tecniche, altre ancora soluzioni che potrebbero valorizzare un atleta: il procuratore deve essere bravo a capire cosa vuole il suo assistito e dargli una mano ad inseguire le sue ambizioni. L’aspetto economico è sicuramente in primissimo piano, ma soprattutto con i più giovani spero che ci sarà la voglia di confrontarsi e prendere decisioni anche in base ad altri aspetti più utili per la loro crescita individuale“.
Da ormai ex centrale, per un giovane è meglio far panchina in serie A o giocare a una categoria inferiore?
“Penso che per un atleta, soprattutto un giovane, sia molto importante scegliere l’allenatore giusto, anche se magari l’offerta economica di quella società è un pelo al di sotto di altre. Anche la scelta della società è determinante nel percorso di crescita di un atleta. Personalmente da centrale sono convinto che andare ad assaggiare un livello alto e vedere la velocità della palla, le altezze che si toccano, la velocità di gioco possa essere molto formativo, perché ti aiuta a capire dove è posizionata l’asticella che si vuole raggiungere. Ovviamente si parla di fare un anno, al massimo due in panchina, perché poi l’esperienza sul campo diventa fondamentale per dimostrare quello che si sa fare“.
Ultima domanda: come prima esperienza, meglio fare il procuratore di un top player, con tutte le “problematiche” che si possono incontrare, o scoprire un giovane talento e accompagnarlo verso l’Olimpo del volley?
“Credo che siano due situazioni veramente agli antipodi: il lavoro è lo stesso ma cambia totalmente il modo di approcciare. Essendo agli inizi di questa nuova esperienza, mi piace pensare di dover fare un po’ di gavetta e quindi mi piacerebbe in questa fase collaborare con qualche giovane che sta venendo fuori e accompagnarlo nel suo percorso: ho la fortuna di collaborare con una agenzia importante e quindi spero di arrivare presto ad interagire anche con i big, ma questo lo vedremo strada facendo!“.
E la sensazione è che anche in questa avventura il Bira nazionale porterà la sua grande professionalità e la sua voglia di lavorare day by day per crescere insieme ai suoi assistiti!
(fonte: Comunicato stampa)