Di Roberto Zucca
Questa non è la storia di una semplice scelta pallavolistica. È la storia di una scelta di vita, che tocca la pallavolo in tutte le sue corde e in qualunque sfumatura essa rappresenti anche l’esistenza di una persona. È la storia di Federico Tosi, un ragazzo e un atleta eccezionale che negli ultimi anni ha vissuto lungo un filo rosso di emozioni, e di momenti, che oggi hanno come pista di atterraggio quella dell’Era Volleyball Project Pontedera, un’ambiziosa squadra di Serie B, nella quale Federico rappresenta la speranza per qualcosa di più di un semplice campionato di categoria.
Federico, partiamo dalla scelta di Pontedera.
“Una scelta fatta per una sola ragione: la serenità. Ho giocato un’ultima stagione a Calci, in serie A2, dopo aver disputato molti anni in Superlega. Mi sono riavvicinato a casa, ne ero felice. È la prima volta che tornavo a casa dai tempi di Santa Croce, dei miei esordi. È andata bene dal punto di vista personale, perché sono rientrato a pieno regime con un ottimo rendimento in crescendo, un po’ meno per il fatto che il campionato si è bloccato in un momento importante”.
Le chiedo, se è d’accordo, di suddividere questa intervista in vari momenti. Il primo è chiederle del suo presente e del mercato di quest’anno.
“Ho ricevuto una proposta dalla Superlega, di cui ero entusiasta, con una squadra del Nord. Ma che, a seguito del lockdown e del mercato che ha poi portato avanti, non si è concretizzata. Ho avuto poi una sola offerta da parte della A2 ma ho deciso di non accettare. Principalmente perché, dopo quello che ho passato negli ultimi anni della mia carriera, desideravo sposare una scelta col cuore e non solo per un ingaggio interessante o per una squadra di vertice. Volevo stare bene. Completamente”.
Il presente. Pontedera.
“Avevo semplicemente chiesto di allenarmi in estate, perché sono rimasto deluso dal mercato. Mi sono invece ritrovato una sera a cena qualche settimana fa a discutere con i dirigenti di un mio impegno. E di un cambio ruolo. Sarò schiacciatore, in serie B. La prendo come una sfida, non certo come un qualcosa di cui dovermi giustificare. È stata una scelta innanzitutto voluta, per continuare a giocare a pallavolo, anche se ho voglia di rimettermi in gioco come libero molto presto. È stata inoltre una scelta che mi ha semplicemente fatto sentire libero dai fardelli del passato”.
Di cosa è stato prigioniero, Federico?
“Della mia ambizione. E dell’aver vissuto male certe scelte della mia vita, certi momenti. Non ne ho mai parlato completamente, ma credo sia arrivato il momento, anche perché credo nel mio piccolo di poter far passare alcuni messaggi che nel mondo dello sport spesso vengono taciuti o messi in secondo piano”.
Inizi lei.
“Sono a Città di Castello dal 2012. Raggiungiamo la Superlega dopo una storica promozione. Il secondo anno sempre con amici come Matteo Piano e Jacopo Massari è stato altrettanto fantastico. Era il mio primo in Superlega e raggiungemmo i play off e tanti rimasero piacevolmente colpiti da quella stagione, perché a soli 22 anni giocai delle belle gare, tra cui il 3-0 contro Modena fuori casa. L’anno dopo invece, le cose non andarono così bene. Rinunciai, per il legame che avevo con la società, ad altre proposte e il terzo anno a Castello, che doveva un po’ essere quello della consacrazione, fu l’anno in cui venni travolto da tutto. Finì la stagione, ma nella mia testa l’errore, la fatalità di essere come sceso da un treno in corsa mentre tutti gli altri avevano proseguito il viaggio, mi ha destabilizzato”.
Passò a Milano.
“Fu l’anno in cui iniziò tutto. Ricordo che cominciai a pensare a quei momenti, e alle occasioni perse. Ricordo che mi portai dietro quel fardello ingombrante, e che qualcuno iniziò a notare che qualcosa non andava. Fuori dal campo soffrivo molto per quei pensieri e se c’è una persona che devo ringraziare per avermi fatto staccare è senza dubbio Federico Marretta, un compagno e un amico che da quei pensieri mi portò via e mi aiutò ad affrontarli anche solo con una chiacchiera e una condivisione. La stagione in sé fu molto buona, sia dal punto di vista tecnico sia per i risultati in campo che arrivarono, nonostante i tanti infortuni della squadra durante la stagione. Da parte mia ci fu qualche momento di instabilità che ha pesato sul giudizio della società e a fine stagione decisero di non confermarmi. Si diffuse la voce, messa in giro da qualcuno, che non ero in condizioni di stabilità perfette e questo mi danneggiò senz’altro”.
Nonostante questo arrivò la chiamata di Perugia.
“Una squadra che partì con la perdita momentanea di Atanasijevic. Era un dream team, che non garantiva i risultati sperati dalla società e dalla presidenza. Io e Andrea Bari fummo al centro di numerose critiche, perché gran parte di quelle mancate performance brillanti lo si attribuì alla scelta dei liberi. Commisi un errore che mi costò caro, ovvero quello di iniziare a curarmi troppo di ciò che leggevo sul mio conto. Soffrivo le frasi e la cattiveria che veniva fuori da qualche blog di settore, soffrivo le voci di un possibile mercato di riparazione, tanto che quando arrivò Bernardi, chiesi subito se volessero mandarmi via”.
È vero che Bernardi la aiutò?
“Moltissimo. È stato uno degli allenatori migliori che abbia potuto trovare sulla mia strada. Lollo mi disse che per lui andavo bene, anzi, che voleva valorizzarmi sempre di più, e che le sue scelte erano libere e mai viziate da imposizioni dall’esterno. Non sono stupito che la Sir abbia vinto tutto con lui. È un vincente e farà sempre di tutto per vincere. Parlammo a lungo dopo il suo arrivo e gli dissi che non stavo bene. Mi aiutò parlandomi di alcuni suoi momenti delicati vissuti in carriera, del supporto che i suoi maestri del tempo gli diedero. Arrivammo alla partita contro Trento e vincemmo 3-0. L’entusiasmo continuò fino ad una partita che ricordo molto bene”.
Andata di Champions League. Avevate di fronte il Belgorod.
“Entrai in campo per il riscaldamento molto carico ma andammo subito sotto 10-0 con due miei errori in ricezione. Fui sopraffatto da un attacco di ansia, e quando vidi Andrea Bari pronto per il cambio, ne fui completamente sollevato. È stato il primo vero momento in cui ho sentito franare la terra sotto i piedi. Ero contemporaneamente all’apice della carriera e vittima del peggiore momento psicologico della stessa. La partita successiva contro Modena, chiesi di far giocare Bari perché non me la sentivo di entrare in campo. Bernardi mi diede un periodo di riposo e anche per la gara di ritorno contro Belgorod rimasi assieme ad Ivan Zaytsev ad allenarmi a Perugia. Quella stagione fu l’inizio di tutto. Se potessi riaffrontare la gara di Modena con la consapevolezza del mio presente, mi creda, affronterei tutto in maniera diversa”.
La stagione successiva arrivò la chiamata di Modena.
“La definirei una montagna russa. Nel senso che fu un anno difficile per tutti. Sappiamo tutti come è andata a finire e quanti momenti no visse la squadra. Non fu un anno particolarmente complicato per me, quanto per il team. La durezza di Stoytchev e la fermezza del personaggio non aiutavano certo la mia fragilità del momento, ma non ero arrivato a Modena per giocare da titolare e quindi da quel punto di vista non sentivo la responsabilità piena in alcuni momenti. Che non mi abbandonarono di certo. Il mio angelo di quei momenti ha un nome: Bruno. Un ragazzo eccezionale che mi aiutò sempre, con la sua delicatezza, con il suo modo di essere coinvolgente, presente. Col fatto che durante la partita era coinvolgente con tutti.
Eravamo un gruppo partecipe alla gara, titolari e non. Era capace di sfruttare un break e chiedere magari a me o Bossi un consiglio da utilizzare in partita. Lui, il più grande di tutti. Ecco, il valore di Bruno lo riconosci da quei momenti. E quel suo modo di fare era come il segnale che nonostante tutto, nonostante le scelte di un tecnico, la fiducia dei compagni ti accompagna sempre e ti è di grande supporto. Quell’aria respirata a Modena me la porterò dentro per sempre e il ricordo di Catia Pedrini e della gente è sempre vivo. Modena è sempre tanto per un giocatore. È una piazza bellissima e unica nel suo genere”.
Tubertini in quell’anno la venne a vedere e pensò a lei per Latina.
“Mi seguì in qualche allenamento e mi propose per la stagione di due anni fa. Accettai. L’anno di Modena provai a buttarmelo alle spalle e mi lanciai in questa avventura. Fu un incubo, ma non da subito. Almeno non dal punto di vista psicologico. Ma l’ansia e i pensieri mi tenevano sempre più ancorato ai fantasmi del passato. Dovevo staccarmi. Per assurdo, stavo quasi meglio in palestra che a casa, posto nel quale venivo assalito dall’angoscia che qualcosa non stesse andando bene e che non ce l’avrei più fatta. Scoppiai, complice anche una ricaduta dell’infortunio che mi tenne fuori un mese l’anno prima a Modena. E qui ho avuto la fortuna di trovare una società che decise per il mio bene di lasciarmi allontanare e di sciogliere il contratto e un allenatore come Tubertini, che è stato eccezionale e che mi ha aiutato a trovare qualcuno con cui confrontarmi rispetto a tutto questo”.
Questa persona si chiama Elena Di Chiara.
“Fu lei a diagnosticare la mia sindrome da burn out. Con lei ho iniziato un percorso, perché da tutto questo non si viene fuori scacciando semplicemente i pensieri, bensì affidandosi a persone competenti, le quali ti accompagnano lungo una strada nella quale devi ritrovare la fiducia in te stesso, l’equilibrio perduto e devi anche rimettere assieme molti pezzi. Significa ripartire dagli errori, interpretarli, e ricostruire le proprie certezze”.
Possiamo dire che si può guarire da tutto questo?
“Sì. Io l’ho provato sulla mia pelle. C’è stato un momento in questa stagione nel quale ho capito che quelle pietre accumulate dentro il mio bagaglio le avevo ormai abbandonate lontano. Una partita contro Cantù. Vissi male tutta la settimana di preparazione alla gara, perché capitava nello stesso periodo in cui l’anno precedente decisi di lasciare Latina. Scesi in campo con la voglia di giocare senza quei pensieri addosso e senza quella paura di fallire, di non essere all’altezza, che mi ha accompagnato per molti anni. Ci riuscii e mi buttai tutto alle spalle. Devo molto anche a Gulinelli, con il quale affrontai il discorso di ciò che avevo vissuto e che mi ha sempre supportato”
Nel mondo dello sport si parla poco di tutto questo.
“Un po’ per il pregiudizio e l’ignoranza sull’argomento. Sono stato anche io un problema e sono stato spesso l’oggetto dell’imbarazzo di alcuni. Ma ho conosciuto tanti atleti che sono stati vittime di tutto questo. Non sono solo i Micheal Jordan o le Serena Williams a combattere. E con i giusti strumenti le assicuro che può essere affrontato. Non come un problema, ma come un’opportunità di crescita”
Le posso chiedere cosa si porta dietro dopo ciò che ha vissuto?
“Ho imparato in primis a non dare importanza all’opinione poco costruttiva di qualche frustrato che usa i social o i blog per avere 5 minuti di notorietà. Ho imparato ad affrontare il giudizio. Fare il giocatore infatti ti rende soggetto a tutto questo ed è giustissimo doverlo affrontare; bisogna però imparare a distinguere un giudizio negativo ma rispettabile dalla cattiveria gratuita di qualcuno”.
Lo sa che invece in molti hanno salutato positivamente la sua scelta di Pontedera?
“Sono fortunato ad aver avuto una famiglia che è stata pronta a riaccogliermi a casa durante lo scorso anno. Una moglie, Veronica, che mi è stata vicino in tutto questo tempo. Mio fratello Lorenzo e mia sorella Alessandra, che mi sono stati accanto sempre. E degli amici, nomino fra tutti Marco Falaschi, ma sono stati davvero tanti, che hanno sempre creduto che da tutto questo potesse venirne fuori un Federico migliore, più forte. Ora sto bene e le posso dire che quello che le ho raccontato è dentro una stanza. Chiuso. Lontano da me”.
Sta bene ora?
“Molto. Se il prezzo per tornare in alto sarà quello di scendere di categoria e cambiare ruolo lo accetto e riparto proprio da qui. Con il desiderio di tornare dove ero ma con un occhio sempre molto vivo sul Federico inteso come persona e non solo come Federico il giocatore”.