Di Roberto Zucca
Le interviste hanno tutte una genesi. Nascono con un obiettivo, terminano spesso con altro. Capita di prenderci la mano, di lasciarsi andare, di entrare in empatia con colui che ti trovi davanti, o di concludere la chiacchierata con un grosso punto interrogativo sulle aspettative insoddisfatte.
Con Giacomo Raffaelli, fresco di rinnovo a Poitiers, nello Stade Poitevin, è stato un viaggio, breve ma emotivamente faticoso. Perché il ragazzo che quest’anno ha incantato la Francia e che a 23 anni vinceva una Challenge Cup con la Bunge Ravenna, ha percorso questo viaggio andando oltre la sua avventura francese e italiana, e parlando di sé e di una vittoria individuale che ha un valore inestimabile, per lui e per coloro i quali hanno vinto con lui una battaglia giocata fuori dal campo.
Lo scorso anno decide di trasferirsi nel campionato francese.
“Volevo giocare. Era questo il mio obiettivo dietro la firma dello scorso anno a Poitiers. Dopo le stagioni a Ravenna, non volevo finire in un club nel quale avrei trovato posto come terzo o quarto. Venivo da campionati positivi e volevo che il mio treno proseguisse, senza fermate intermedie. Giocare in una buona squadra, ma farlo da titolare”.
È stato difficile adattarsi al campionato d’Oltralpe?
“C’è voluto qualche mese. Venivo dal campionato italiano che non tanto per il livello, quanto per il tipo di gioco, è piuttosto diverso. In Italia si pratica un gioco di palla alta, molto diverso da quello francese. Una volta che ho imparato ad impostare il gioco, è stato tutto molto più in discesa”
Perché ha scelto di rinnovare?
“La Francia mi ha accolto, ma soprattutto mi ha dato certezze. Ci hanno garantito il 100% dello stipendio e i contributi. Leggo e sento amici ed ex compagni di squadra che lottano e lotteranno per avere le tutele minime e cercheranno di salvarsi da decurtazioni scellerate dei propri ingaggi. Vederlo da fuori, mi creda, è un sollievo. Posso solo cercare di capire queste situazioni”.
Cosa non funziona in Italia?
“Non è riconosciuto il professionismo. Tutto qui. In Francia ogni squadra è un’azienda e tratta i propri giocatori come dei dipendenti. Ci paga i contributi, e noi giocatori siamo soggetti alle regole e alle leggi di qualsiasi lavoratore francese”.
Pare che il prossimo anno il campionato francese avrà degli ottimi innesti.
“Ho letto di Taylor Averill, che ho incontrato nel campionato italiano, ad esempio. E vedo un mercato in fermento. Qui succede tutto prima. I rinnovi vengono annunciati in anticipo e le trattative iniziano già dall’inizio dell’anno. Sta crescendo tanto, non è più un campionato cosiddetto periferico”.
È vero che da piccolo non fu la pallavolo la prima vocazione?
“Sono stato un tennista, discreto, fino ai 12 anni. Poi ho lasciato dopo una sconfitta che mi segnò parecchio. Iniziai con la pallamano, nella quale altezza e fisicità mi aiutarono ad emergere. Ma quando venni convocato per un concentramento nazionale capì che non era la mia strada. Arrivò la pallavolo a scuola, e i primi concentramenti regionali nel ruolo di centrale. Poi mi dissero che avevo anche un buon bagher, e iniziai a giocare attivamente nel ruolo attuale”.
Piacenza e poi Club Italia. Esperienze importanti?
“Fondamentali. Giocai con Piacenza assieme a Marretta, Massari. Piano già giocava in prima squadra. Eravamo un bell’assortimento di personaggi. Poi il Club Italia, Siena e Ravenna, dove disputai tre stagioni importantissime”.
Le manca quell’atmosfera un po’ da gita scolastica che ha respirato a Ravenna?
“Ho trovato un bell’ambiente anche qui. Il secondo anno a Ravenna però, è stato indimenticabile. Si respirava una bellissima atmosfera. E chiunque era in grado di notarlo. Ricordo con molta gioia non solo le vittorie ma anche tutto l’impianto costruito sopra con i compagni di squadra”.
La notte della Challenge, ad esempio?
“Serata magica. Una delle più belle in carriera. Ricordo il punto del terzo set che feci e con il quale ci aggiudicammo la coppa. Ricordo i tifosi in festa, la cena del dopo partita. E poi mi fermo qui… (ride, n.d.r.)”.
Non essere più nel campionato italiano rappresenta un minus per la sua carriera?
“No, e non credo lo rappresenti per gli altri. Se parliamo di nazionale, penso che se un giocatore merita, lo si porta in nazionale a prescindere dal campionato in cui milita. Prendiamo i francesi ad esempio. Chi di loro gioca nel campionato del proprio paese? Personalmente ritengo importante giocare e maturare esperienza, anche se in altri campionati”.
Quanto è importante la nazionale per lei?
“Mi fa questa domanda in un momento in cui le circostanze della vita mi hanno portato a rimettere in ordine le priorità. La nazionale è importante, ma non da non dormirci la notte. Quando trascorri dei momenti molto difficili della tua vita, capisci che si può far pace anche con le sconfitte”.
Quali sono stati i momenti difficili della sua vita?
“Lo scorso anno ho scoperto di avere un cancro. Non ne ho mai parlato ai giornali perché è stato un momento molto difficile, che ho scelto di vivere con poche persone, ovvero con la mia famiglia e la mia ragazza. Ecco, quando a 24 anni succedono certe cose, tutto ritorna ad avere un equilibrio e tutto riassume la giusta importanza”.
Come sta, Raffaelli?
“Ora molto meglio, grazie. Come già detto prima, è stato un momento difficile da tutti i punti di vista, sia a livello fisico che mentale. Posso dire che sono stato fortunato ad averlo preso per tempo e aver avuto quella giusta dose di forza che mi ha permesso di non abbattermi, di prendere di petto la situazione e di trarne qualcosa di positivo”.
Ed ora?
“Ed ora i giorni migliori della mia vita da atleta devono ancora venire”.