Di Stefano Benzi
Prosegue la nostra rubrica Hit Parade, qualche notizia di pallavolo – a volte bizzarra – che ci offre lo spunto per arricchire la playlist con qualche suggerimento speciale.
1. Una canzone per Paolone
Paolone Sartori era una gran bella persona. Divertente, tanto per cominciare, molto generoso e iperattivo. La sua scomparsa alcuni mesi fa ha rappresentato un momento molto triste. In questo momento così particolare c’è un unico modo per far sopravvivere il ricordo di chi ci lascia. Ed è tenerli in vita con qualcosa di concreto.
In Scozia, c’è una tradizione molto divertente: la memorial bench. Una panchina che viene installata in un parco con il nome della persona scomparsa. Chi si siede lì si gode il verde e il fresco e magari si incuriosisca sul nome di chi ha regalato una proprietà comune. A Dunfermline, in Scozia appunto, c’è una panchina meravigliosa con scritto: “Questa panchina è stata allestita nel ricordo del signor Malcom McLean che detestava questo parco”. Paolone ne avrebbe riso un sacco.
I suoi tifosi del gruppo Non Plus Ultra’s sono andati fino in Africa per ricordarlo. Ora a Boscolac, nella Repubblica Democratica del Congo, c’è una quarta elementare che si chiama “Paolo Sartori”.
Il modesto contenuto di questa rubrica è nel farvi ascoltare una canzone meravigliosa di Elton John che si intitola “Healing Hands”. Non è uno dei suoi brani più conosciuti, la esegue anche molto raramente dal vivo. É un singolo del 1989 di uno dei suoi album meno noti, “Sleeping in the Past”. All’epoca Elton era nel pieno di una voragine di droga e alcol. La sua biografia racconta che poche settimane prima della pubblicazione, al disco mancasse ancora una canzone. Bernie Taupin, il suo paroliere, andò da Elton John con alcuni appunti scritti su un blocco e un video-documentario che parlava di un villaggio in Africa dove nella migliore delle ipotesi i bambini morivano ciechi, a causa di una forma incurabile di infezione agli occhi. Il rocker guardò il video, pianse e scrisse il suo brano al pianoforte in quindici minuti: una canzone ispirata al gospel. Poi corresse il testo (non lo aveva mai fatto): aggiungendo un paio di righe del suo paroliere. Le parole ora dicono “Là dove finisce l’oscurità c’è una luce che ti chiede, toccami, e fammi vedere di nuovo… non c’è cura per il dolore: l’unica è guadare il fiume”.
Questo il video originale di “Healing Hands”, molto intenso e incentrato sulle mani e sulla loro forza. Lo ha diretto Russell Mulcahy (il regista del primo “Highlander”)
2. Una casa per Angel Dennis
Abbiamo fatto l’abitudine a vedere Angel Dennis, 43 anni, un po’ ovunque. La prima volta che lo conobbi giocava a Palermo dove allenava la Ljubomir Travica, una squadra strepitosa che purtroppo durò poco. Nato a Cuba, italiano d’adozione, ha giocato ovunque: Portorico, Brasile, Argentina, Portogallo, Libano, Modena, Latina, Santa Croce e Macerata, due volte: prima con la vecchia Lube e ora con la Med Store. Per essere chiari ed evitare sterili polemiche da parcheggio: Dennis è italiano, e non da ieri. Ma da un pezzo. Ha passaporto e cittadinanza del nostro paese. Secondo la FIVB, però, lo schiacciatore non ha vissuto abbastanza in Italia per essere considerato italiano. Cioè, gioca qui dal 1998, ha collezionato squadre in modo compulsivo, ma siccome ha giocato anche all’estero, e nonostante abbia il passaporto italiano non può essere considerato italiano in termini agonistici.
Sicuramente le regole sono importanti ma alcune sono davvero ottuse e vanno contro la prima regola in assoluto: il buon senso. Ora pare che Angel abbia deciso di rivolgersi alla magistratura per evitare quella che il suo avvocato ha definito una discriminazione di carattere professionale.
A lui e a tanti stranieri che vengono a giocare in Italia e si sentono immediatamente come a casa loro, dedichiamo un brano molto bello. Lo scrisse Marvin Gaye, artista tragicamente scomparso, molto più noto per la sua “Sexual Healing”. Di ritorno da una tournée nella quale aveva girato 32 paesi e tenuto 68 concerti in tre mesi, Gaye prese una melodia molto dolce scritta dai suoi autori di allora (era il 1962) – Barrett Strong e Norman Whitfield – e scrisse “Wherever I Lay My Hat”. Dovunque appoggi il cappello, quella è casa. Un bel modo di vivere un mondo aperto e senza frontiere che ci manca immensamente.
La versione è quella che nel 1983 arrivò al primo posto in tutto il mondo, cantata dall’inglese Paul Young e impreziosita dal basso di Pino Palladino (poi anche con The Who).
Questa la versione dal vivo di Paul Young tratta dal tour di “No Parlez” del 1985
3. Reti con i buchi da coprire e case da bruciare
Dal collega e amico Marco Fantasia siamo venuti a sapere che a Trento è in sperimentazione una rete rivestita da una pellicola particolare che dovrebbe contenere le particelle virali tra un campo e l’altro. Si chiama Covernet. In effetti siamo circondati da precauzioni vere, presunte, probabili. E ci tocca convivere con abitudini che sono completamente cambiate e che ci hanno travolto e sicuramente ci fanno vivere peggio. Ma l’idea della rete con pellicola protettiva ha subito portato alla memoria una canzone strepitosa. Sarà per la mia anima fortemente punk: ma a me le protezioni, per quanto il periodo le richieda e siano assolutamente condivisibili, mi mettono quasi più ansia delle malattie. Di qui il brano “Burning Down the House” dei Talking Heads: quando una casa è bella, sicura, sana, tranquilla e tutto è a posto e vivere in questa casa ci fa sentire persone migliori anche se siamo indebitati fino ai capelli e non sappiamo nemmeno se potremo permettercela, forse è il caso di reagire. La chiamano ‘sindrome del muro bianco’. Il senso del muro bianco è che va sporcato. David Byrne, cantante e fondatore dei Talking Heads dice: “Splendida casa, talmente tanto bella che ora la brucio”.
Una versione live di “Burning Down The House” dal film “Stop Making Sense” registrato durante il tour del 1983
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