Di Roberto Zucca
“Quando mi chiedono chi è stato il più forte della nostra generazione rispondo sempre Cantagalli: uno dei più completi, dei più tecnici, dei più eleganti“. La miglior definizione di Luca Cantagalli l’ha data un suo compagno di nazionale di sempre, ovvero quell’Andrea Zorzi che con il “Bazooka” più famoso della pallavolo italiana fece parte della Generazione di Fenomeni che ha fatto la storia del volley.
È proprio questo mix di ingredienti che ha reso così intramontabile il mito di Luca Cantagalli?
“(ride, n.d.r.) Non saprei. Intanto è una definizione data da Zorzi che mi fa molto piacere sentire. Io inizierei col dire che sicuramente l’elemento che mi ha più contraddistinto è stata la tenacia. La perseveranza e la fermezza che ho avuto in carriera credo che mi abbiano supportato in ogni cosa che ho fatto”
Gianluca Pastore, nel suo libro, la definisce “il primo in niente, tra i primi in tutto”. Le riusciva davvero bene tutto?
“Non ero il classico giocatore che eccelleva particolarmente in qualcosa. Ma ero uno che faceva il suo mestiere ed era interessato solo ed unicamente a giocare a pallavolo, cercando di fare bene tutto ciò che gli veniva proposto. Credo sia stato quello il mio valore aggiunto. E giocare con le persone che ho avuto al mio fianco in carriera ha fatto sì che quel lavoro mi aiutasse a raggiungere dei traguardi professionali importanti”.
A 30 anni di distanza quei rapporti sembrano ancora far parte della sua vita. Quanto ha influito il vostro solido legame fuori dal campo per ottenere quei risultati?
“Avere dei rapporti di amicizia con quelle persone è stato importante per me come uomo in primis, più che come giocatore. Sono persone che fanno parte da sempre della mia vita. Persone come Gardini o Sartoretti riesco a vederli nella quotidianità, ma sento tutti, da Lucchetta a Tofoli a Zorzi, e se me ne dimenticassi qualcuno mi sembrerebbe di fargli un torto”.
Di lei si è detto che si è sempre tenuto lontano dalle luci della ribalta.
“Non ho mai amato il successo inteso come telecamere, interviste, conferenze stampa, televisione o quant’altro. Anzi, apparivo sempre con timidezza in quelle circostanze. Non ho fatto sport per diventare popolare, ho scelto lo sport perché era la mia prima passione. Tutto quello che è arrivato con la nazionale e i club mi ha fatto piacere ma non ho mai avuto la smania di apparire per raccontarlo”.
Come riusciva a non perdere la bussola in quei momenti?
“Una volta, durante un pre-olimpico prima di Barcellona 1992, fummo costretti a chiuderci dentro una stanza di un palazzetto perché un gruppo di ragazzine ci inseguiva. Vidi questa fiumana di gente che si riversava su di noi, e se ci penso adesso mi viene da ridere. Anche se in quel momento pensammo solo a correre verso lo spogliatoio perché avevamo paura di essere letteralmente travolti! Era quello il peso del successo. Una cosa gestibile, bastava avere la testa”.
La popolarità continuò anche a Treviso. Cosa ricorda della famiglia Benetton?
“Di Gilberto e della famiglia Benetton ho un bellissimo ricordo. Furono anni di grandi investimenti e il Palaverde e la Ghirada furono motivo di orgoglio non solo per la famiglia, ma per l’intera città di Treviso. Era una famiglia che teneva molto sia alla pallavolo che al basket. Spiace vedere che una realtà come la Sisley non faccia più parte della pallavolo italiana”.
C’è qualcosa che hanno detto di lei durante la sua carriera che l’ha fatta soffrire?
“Molte persone si sono fatte un’idea completamente diversa di me e col tempo hanno cambiato opinione. Non c’è stato qualcosa in particolare che mi abbia fatto soffrire. Dicevano ad esempio che sembravo una persona molto fredda, distaccata. In realtà chi mi conosce veramente sa che sono una persona ironica e molto semplice. Certo non sono uno che attira su di sé l’attenzione degli altri o che deve per forza fare una battuta su qualsiasi cosa. Questo no”.
La carriera in nazionale proseguì fino all’argento di Atlanta 1996. Come si riprese da quella delusione?
“Per me fu un’Olimpiade molto particolare. Non sono arrivato ad Atlanta nelle condizioni in cui avrei voluto perché mi ero appena ripreso da un intervento al gomito. Fu deludente per il fatto che tutti attorno a noi e anche noi pensavamo fosse l’anno giusto per arrivare all’oro. Il campo dimostrò che c’era qualcuno più forte di noi. È stata una sconfitta impattante, ma se vuoi fare questo mestiere la cultura della sconfitta è fondamentale per riuscire a sopravvivere”.
Il presente di casa Cantagalli. Diego e Marco hanno seguito le sue orme. È orgoglioso della loro scelta?
“Sono orgoglioso di quello che sono diventati fuori dal campo. Con mia moglie Simona non abbiamo mai spinto i ragazzi a fare delle scelte. Certo è che vederli ritagliarsi un ruolo in questo mondo mi inorgoglisce. Per me è importante ciò che ho trasmesso ai miei figli come genitore, non in quanto ex giocatore”.
Suo figlio Diego ha dichiarato che è stato difficile fare le scelte che anche lei ha fatto da ragazzo, lasciando casa molto presto. Ne ha sofferto anche lei?
“Moltissimo. Pensi sempre che quelle stesse scelte le hai fatte anche tu e che sono parte di un percorso di crescita in cui i sacrifici sono alla base. Ma lasciare che tuo figlio a 14 anni lasci casa per inseguire un sogno è un qualcosa che fa sempre soffrire, perché avresti voluto viverlo nella quotidianità di quell’età”.
La sua seconda vita da allenatore si è affiancata a quella di ristoratore.
“Ho iniziato nel 2018 a Carpi con la Carnoteca, il primo locale, e da pochi giorni ho preso in gestione il secondo locale, a Colombaro, all’interno del Modena Golf&Country Club. La cucina mi ha sempre attirato e provengo da una famiglia in cui si è sempre mangiato molto bene. Ho unito la passione al diletto e devo dire che è andata molto bene”.
Cosa ha portato della pallavolo nel mondo della ristorazione?
“Come lo sport, la cucina può essere un mondo di primedonne, con delle personalità e dei caratteri fumantini. Ho portato dentro il valore del collettivo, quello che sul campo ti insegna a capire che una squadra non vince con una singola personalità che spicca, ma con un insieme di persone che collabora insieme per la buona riuscita di un progetto”.
Vorrei sfatare una leggenda con lei: è vero che la fine ufficiale della sua carriera fu sancita all’All Star Game nel novembre del 2006?
“Confermo. Fu Lorenzo Dallari a propormi di preparare un ingresso a sorpresa. Ero spaventato perché avevo commentato per un’ora la partita in corso e sarei entrato così, a freddo. Mi chiese di mettermi sotto il completo elegante i pantaloncini e la maglia, e mi inquadrarono mentre mi toglievo la giacca e la cravatta per scendere a tirare l’ultima battuta, e sostituire Zlatanov che aveva tirato di proposito un fuoricampo direttamente sulle tribune di Montichiari, per richiedere il cambio. Ricordo che tutto il pubblico si alzò in piedi per applaudire e fu un momento molto bello e molto toccante”.
La ricordano tutti anche per la sua passione in solitaria per la pesca, ma molti non sanno che lei per anni nei ritiri si isolava con i suoi libri di avventura.
“Entrambe le passioni mi deconcentravano e mi aiutavano a rilassarmi. Ho divorato tutti i libri di Wilbur Smith in quelli anni mentre alla pesca ho dedicato tanti momenti liberi nelle pause concesse dai club e dalla nazionale. La passione per la pesca l’ho trasmessa anche ai miei figli, mentre quella dei libri di avventura ancora no!”.