Di Stefano Benzi
Da quando è nato il Rally Point System che ha cancellato la vecchia logica del punto sul proprio servizio, il volley è cambiato moltissimo. L’intendimento di quel provvedimento – nato nel 1998 e applicato a livello globale dal 2000 – era di rendere le partite di pallavolo più televisive e più prevedibili in termini di durata: ma come sempre accade quando nuovi elementi vengono inseriti per variare un adattamento, il sistema sta riadattandosi e mai come in questa stagione, non solo in Italia ma anche all’estero, i set si stanno facendo più lunghi ed equilibrati con una conclusione che molto spesso va ben oltre il classico extra-rally.
Le televisioni concessionarie da una parte ringraziano, perché il contenuto è di gran lunga più efficace in termini di prodotto ma le loro programmazioni dall’altra parte si angosciano perché quando una partita chiude con un set 25-8 e un altro 36-34 (giusto per fare due esempi concreti di questi ultimi giorni) tutto diventa più difficile da inquadrare in un palinsesto. Anche in questo senso il sistema si è riadattato: nascono le tv on demand e on line proprio per dare il miglior prodotto possibile alla nicchia: lo sport è sempre meno generalista e sempre più differenziato per prodotto e programmazione.
“Perché alla fine vedrete che anche questo cambiamento epocale verrà assimilato e dovremo affrontare molto presto nuovi equilibri da rompere…” mi aveva detto Giampaolo Montali quando lo avevo intervistato poco prima dell’introduzione del nuovo punteggio e della figura del libero.
Un po’ come succede nell’evoluzione: “La vita vince sempre…” dice in Jurassic Park il matematico specializzato nella teoria del caos Ian Malcolm interpretato da Jeff Goldblum, che prima di misurarsi con i marziani di Indipendence Day era stato il grande protagonista dell’avventura preistorica di maggiore successo del cinema. La vita vince sempre: è bello pensare che sia così e che anche nello sport la “vita” sia da interpretare come la competizione che dopo qualsiasi rivoluzione, per quanto radicale e globale, riprende il sopravvento.
Io sono cresciuto con il basket senza tiro da tre punti e con la pallavolo che arrivava ai quindici e viveva sull’alternanza di furiosi cambi palla. E tutto sommato non sono pentito di aver vissuto quell’epoca in bianco e nero, quasi sbiadita, di lunghi e faticosissimi set che non finivano mai e spesso non portavano da nessuna parte: a volte la rimpiango anche un po’. Spesso mi chiedo come sarebbero le partite di oggi con meno muscolarità e un po’ più di “manico”: mi domando come reagirebbero alla pallavolo di oggi le mani più chirurgiche che abbia mai visto su un campo da pallavolo in vita mia… quelle di Kim Ho-Chul. Ho avuto il privilegio di conoscere Kim personalmente, dopo averlo ammirato – quasi venerato nel suo ruolo – quando la sua carriera da giocatore era appena finita: aveva 40 anni. Poi lo intervistai a Trieste, sei o sette anni dopo… sembrava che fosse uscito dal campo un attimo prima: bastava vederlo in pantaloncini, non in tuta, e capivi che avrebbe potuto continuare a fare il giocatore per un bel pezzo. Eppure lui mi disse… “Ho finito al momento giusto prima che quel genere di pallavolo cambiasse per sempre, non so se mi sarei mai abituato al nuovo sistema”.
Era un bel modo per dirmi che le mani chirurgiche non bastavano più: “Serviranno battute più esplosive, ricevitori più reattivi e alzatori in grado di trasformare qualsiasi palla sporca in un potenziale punto. Io ho giocato una gran pallavolo perché avevo una linea di ricezione sempre all’altezza”. Sua figlia Mi-Na ha continuato la tradizione paterna della pallavolo; anche Joon in un certo qual modo perché il secondo sport di Kim Ho-Chul è sempre stato il golf ed è proprio in quella direzione che si è spinta la scelta del figlio. Però – e perdonate l’assolutismo – è un dato di fatto: non abbiamo mai più visto alzatori così. O forse sarà quella patina di bianco e nero che ci fa ripensare sempre ai più grandi come a qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle.
Ripenso alla pallavolo di molti, molti anni fa a set che potevano arrivare anche a un’ora di lunghezza con giocatori stremati e in preda ai crampi e un pizzico di nostalgia mi pervade: perché è vero, abbiamo partite più combattute e intense, ma abbiamo anche molti set con gap straordinariamente ampi e allora forse è vero che si sta andando verso un nuovo equilibrio dove alla fine a vincere sarà “la vita” intesa come competizione, la ricerca di un nuovo punto di incontro da far saltare e demolire per poi costruire qualcosa di diverso che sarà più adatto a strategie televisive e di marketing e che nell’arco di qualche anno dovrà essere nuovamente fatto saltare. It’s evolution baby… (cit.)