Di Eugenio Peralta
La capacità di esportare allenatori di alto livello è uno dei marchi di fabbrica della nostra pallavolo: sono innumerevoli i tecnici italiani che hanno conquistato campionati e trofei all’estero. Ma Roberto Santilli non è solo uno dei tanti: il titolo di V-League vinto con i KAL Jumbos si può considerare una doppia impresa. Innanzitutto perché Santilli è il primo coach straniero ad allenare e vincere in Corea del Sud (e sembra aver aperto una strada, tanto che la squadra della Korean Air ha scelto per sostituirlo il finlandese Tommi Tiilikainen), e poi perché lo ha fatto nel contesto forse più ostico possibile per un carattere indipendente e “ribelle” come il suo.
A raccontarcelo è lo stesso allenatore romano in una chiacchierata che tocca anche il tema della sua prossima avventura: nella prossima stagione guiderà infatti lo Ziraat Bankasi Ankara, prendendo il posto di un altro tecnico italiano reduce dalla vittoria del proprio campionato, Giampaolo Medei.
Cominciamo dalla Corea del Sud: com’è andata quest’ennesima esperienza all’estero della sua carriera?
“Be’, ne ho vissute tante, ma devo dire che questa le supera tutte per difficoltà e diversità. In un mondo globale, in cui ormai è assodata la circolazione di persone, merci e idee, la Corea è una realtà ancora chiusa e soddisfatta di esserlo, che non ci tiene per niente ad aprire le barriere. Mi aspettavo di trovare un terreno fertile in cui seminare, e invece mi sono accorto subito che questa condizione non c’era. Ho incontrato tantissime resistenze, molto più forti ad esempio rispetto al Giappone, nel cercare di introdurre un approccio più globale alla pallavolo. È davvero difficile riuscire a convincere le persone a porsi e comportarsi in modo diverso“.
A che tipo di resistenze si riferisce?
“Soprattutto organizzative e burocratiche, ma anche dal punto di vista tecnico. Un esempio pratico è quello dell’utilizzo dei giovani: in Corea c’è una rigidissima gerarchia, nella pallavolo come negli altri ambiti della società, in base alla quale sono i più vecchi a dettare le regole e i giovani non hanno spazio. Una costruzione sociale che è contraria ai miei principi, perché sono un democratico convinto… Così mi sono trovato a mandare in campo molti giocatori che non avevano mai avuto occasione di giocare, cercando di sostenere e dare fiducia ad atleti giovani che spesso erano i primi a non credere in loro stessi“.
Siete riusciti a vincere nonostante il cambio in corsa dello straniero, un problema non da poco in Corea…
“Nella V-League c’è la filosofia secondo cui lo straniero deve essere il terminale d’attacco principale, quello a cui arrivano tutti i palloni. Ma da noi Villena è arrivato infortunato e così ho dovuto ricostruire un modello di gioco più simile al nostro, basato sulle responsabilità condivise, sul gioco di squadra: concetti non facili da far passare. Alla fine più del 50% delle nostre vittorie sono arrivate senza lo straniero in campo e abbiamo vinto sia la regular season sia i play off, cosa che in Corea non succede praticamente mai“.
Ma l’idea di restare alla guida della squadra non è mai stata in discussione?
“Sinceramente no, la separazione è stata consensuale. Era evidente che non c’erano le condizioni per andare avanti, da parte mia ma tutto sommato anche della società“.
Fuori dal campo, invece, com’è stata la sua esperienza?
“La vita in Corea è tranquilla e piacevole, è un paese agiato e con un buon livello di benessere. Non c’è microcriminalità, nel senso che non esiste del tutto, e non abbiamo avuto neppure grosse limitazioni legate alla pandemia. Le società sono molto organizzate, anche perché appartengono tutte a grandi multinazionali: non hanno certo problemi di budget, si può avere praticamente qualsiasi cosa di cui si abbia bisogno. Basti pensare che in palestra avevamo un maxischermo di 6 metri per 4…“.
Avete avuto modo di vedervi con Valentina Diouf, l’altra italiana in Corea?
“Sì certo, anche se in gran segreto (ride, n.d.r.), perché le società non gradiscono molto che gli stranieri si ritrovino tra di loro. Ci siamo incontrati qualche volta per una cena a casa, il marito di Valentina tra l’altro è di Roma e ci siamo trovati subito bene!“.
Adesso, tanto per non farsi mancare nulla, la aspetta un altro campionato con un bel po’ di pressione come quello turco…
“Io sono convinto che per fare questo lavoro a certi livelli la pressione ce la devi avere dentro. Per me era un sogno diventare allenatore e ci sono arrivato partendo dal basso, quindi sono stato il primo a mettermi pressione da solo: le condizioni esterne non fanno una grande differenza“.
Cosa si aspetta dalla nuova stagione allo Ziraat Bankasi?
“In realtà ero pronto a fare un po’ di vacanze… Ma sono molto contento di essere stato contattato, aggiungo un’altra bandierina al mio Risiko! Sto facendo la quarantena in Italia e non ho ancora avuto modo di andare in Turchia, ma ho già scoperto una realtà molto organizzata, oltre che molto ambiziosa“.
Come si fa a passare dalla Corea alla Turchia in pochi mesi?
“Studiando, come sempre. Il mio mestiere alla fine consiste in questo: studiare giocatori e squadre, capire come funziona una determinata realtà e provare a interpretarla“.