Di Stefano Benzi
“La mentira mas grande en el deporte es que todos los jugadores deben ser tratados igual”. Questa frase che significa “la menzogna più grande nello sport è che tutti i giocatori debbano essere trattati uguali” è diventato uno dei comandamenti di Pep Guardiola, bandiera del Barcellona prima come giocatore e poi come allenatore, l’uomo destinato con ogni probabilità a vincere il titolo anche in Inghilterra con il Manchester City, dopo quelli vinti in Spagna e Germania. Un uomo speciale che non si è mai definito special one e che – curiosamente – è un grande appassionato di pallavolo.
Lo intervistai secoli fa, nel 2000, quando venni spedito a Barcellona a carpire qualche notizia sul suo possibile arrivo in Italia: si sapeva che lo voleva la Roma ma c’erano molte perplessità sulle sue condizioni fisiche. Tant’è che prima di andare alla Roma Guardiola finì al Brescia di Mazzone che accettò di buon grado di introdurlo al gioco italiano: fu una stagione interlocutoria interrotta anche da una strana vicenda di integratori che avevano aumentato la produzione di nandrolone nel suo metabolismo. All’epoca si disse… “impossibile, scandalo!”. Accusato di doping nel 2001 Guardiola fu completamente scagionato nel 2007… con comodo.
Quando lo intervistai ricordo che mi disse che tra gli sport che amava di più c’erano il tennis e la pallavolo: “Il tennis perché esalta talenti straordinari, la pallavolo perché è un vero sport di squadra”. E mi confidò la sua ammirazione per Julio Velasco. Per me appassionato di pallavolo fu una rivelazione un po’ strana perché Velasco era fermo da quasi tre anni dopo aver allenato Italia maschile e femminile. In compenso aveva scritto un libro, aveva tenuto diversi corsi motivazionali e organizzativi e gli allenatori di calcio mal sopportavano che soggetti come Velasco o Montali avessero la verità in tasca.
Guardiola e Velasco si incontrarono a pranzo quando un Pep – giovane allenatore – stava cominciando la sua stagione di tecnico: “Un incontro che mi ha cambiato la vita perché con grande semplicità mi ha spiegato tante cose che a volte non basta una vita a imparare. Mi disse di comportarmi con i miei giocatori come se fossero dei bambini: non sono tutti uguali e non devono crescere tutti uguali, ognuno di loro ha una personalità e un talento che va coltivato. Mi disse che l’allenatore non deve costruire ma deve convincere a fare le cose e mi disse una frase che mi segnò profondamente… “Se vuoi allenare devi uccidere il giocatore che è in te”.
L’allenatore di calcio passa per essere un presuntuoso, un intoccabile, salvo poi saltare per aria insieme alla panchina: “L’allenatore deve dire bravo a qualsiasi giocatore se lo meriti, anche più volte, anche il doppio del necessario. E se la squadra è femminile moltiplicate per quattro: le ragazze vanno coccolate. E ogni tanto vanno spinte in piscina, dalla parte dove non si tocca”.
Allenare richiede dedizione, Guardiola chiese a Velasco come ‘curare’ le teste calde dei giocatori più dotati, ma che spesso preferiscono la discoteca alla palestra: “Digli chiaramente che le palestre di periferia sono piene di grandi giocatori mancati; quelli che sono pronti a sacrificarsi sul serio saranno sull’albo d’oro e fuori dai locali notturni”.
Mi piace pensare che Guardiola, che purtroppo non ho mai più incontrato, abbia messo in pratica molti di questi capisaldi che oggi fanno parte del Velasco-pensiero. Uno forse più di ogni altro: “L’allenatore che vince festeggia; quello che perde si raccoglie con i suoi ragazzi e spiega quello che è successo… senza drammi”.