Di Alessandro Garotta
La pallavolo, ormai dappertutto, si è fermata. Ha cominciato la Cina, si sono accodate la Corea del Sud e l’Italia, e poi è stato il turno di tutti gli altri campionati e delle coppe europee. E allora, in questi giorni complicati, non ci resta che mettere in pausa il mondo e tuffarci nel passato, farci cullare dai ricordi.
In particolare, oggi ci chiediamo: come si diventa il re del volley?
Il ventiseiesimo presidente nella storia degli USA, Theodore Roosevelt, un giorno disse: “Ci sono uomini che nascono grandi. Ce ne sono altri cui la grandezza viene imposta“. Il 3 novembre 1960 a Jackson, nel Michigan, nacque Charles Frederick Kiraly, poi conosciuto da tutti semplicemente come Karch. Esattamente cinque giorni dopo John Fitzgerald Kennedy venne eletto presidente degli USA, il trentacinquesimo nella storia del paese. A Karch Kiraly il destino avrebbe riservato una sorte migliore: nel suo caso potrebbe essere valido il proverbio latino nomen omen docet, anche se in questo caso sarebbe più corretto parlare di cognome. Kiraly infatti in ungherese significa “re”, “sovrano”; in effetti regnò, non in una nazione, ma in una disciplina sportiva, grazie alla quale avrebbe conquistato il mondo, vincendo tutto.
Pochi giocatori segnarono la pallavolo come Karch Kiraly, che sin da piccolo aveva deciso di seguire le orme del padre Lazlo, membro della nazionale ungherese. Vera macchina da guerra in campo, si allenava con assoluta disciplina sia dal punto di vista fisico sia da quello mentale. “Il talento da solo non basta. Servono allenamento mentale e olio di gomito” amava dire Karch, che passava ore ed ore in palestra a ripetere i movimenti che avrebbe utilizzato in partita. “Allenati all’impossibile per essere pronto all’imprevedibile“. Ben presto si rese conto che nel volley ogni incontro fa storia a sé e che ogni momento singolo può essere quello decisivo.
“Tutto quello che oltrepassa la rete si può prendere“. Kiraly sviluppò un’avversione fisica verso l’errore e cercò di ricevere o difendere quanti più palloni possibili si presentavano nel suo campo. Le partite di pallavolo sia all’epoca dello stesso Kiraly, in cui c’era ancora il cambiopalla, sia oggi con il rally point system e il libero, si vincono non solo con l’attacco, il muro, la battuta vincente ma anche e soprattutto grazie alla capacità di aspirare palloni in seconda linea. Diventa così fondamentale, per il muro e per i difensori, saper leggere le intenzioni del palleggiatore avversario.
Fino all’arrivo di Karch la nazionale USA di pallavolo maschile non era ancora riuscita a conquistare la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Ma nel 1984, ai Giochi di Los Angeles, la vittoria arrivò e fu schiacciante. Kiraly e compagni sconfissero per 3-0 l’ostico Brasile, l’unica formazione in grado di batterli nella fase a gironi. Quell’edizione delle Olimpiadi fu tuttavia contrassegnata dal boicottaggio dei Paesi del blocco orientale: mancò dunque lo scontro sul campo tra le due superpotenze, i massimi sistemi del mondo, USA e URSS, che avevano anche alcuni fra i migliori pallavolisti del mondo.
Americani e sovietici si sfidarono poi in Giappone, nella World Cup del 1985, e ai Mondiali in Francia nel 1986: in entrambe le occasioni prevalsero Karch Kiraly e compagni. L’incontro tanto atteso tra USA e URSS si ripeté quattro anni dopo a Seul, in Corea del Sud, nel 1988, in finale. Vinsero ancora gli USA, in rimonta per 3-1: un successo che valse agli statunitensi la seconda medaglia olimpica consecutiva. La sconfitta dei sovietici fu solo il preludio sportivo del crollo di un intero sistema politico, espresso simbolicamente con la caduta del Muro di Berlino, avvenuto un anno dopo.
Dopo aver conquistato due medaglie olimpiche da protagonista nella propria disciplina, che cosa si vuole di più? Karch Kiraly, mai pago, amava superare nuove sfide e si rese ben presto conto che non gli bastava: perciò decise di provare a vincere con una squadra di club. Negli USA all’epoca – come peraltro tuttora – non esisteva un campionato di pallavolo professionistico. Kiraly scelse dunque di andare a giocare nel campionato italiano, a Ravenna, dove in quel periodo l’Olimpia Teodora stava scrivendo la storia della pallavolo femminile.
Insieme al connazionale Steve Timmons con la maglia del Messaggero Ravenna, guidato da Daniele Ricci, Karch vinse tutto: scudetto (1991), Coppa Italia (1991), Mondiale per Club (1991), Coppa dei Campioni (1992) e Supercoppa Europea (1992). Nel 1992 all’età di 32 anni smise di giocare a volley indoor. A Ravenna però nessuno lo avrebbe mai dimenticato: nel 2001, dieci anni dopo la finale scudetto tra Messaggero Ravenna e Maxicono Parma, il cronista romagnolo Marco Ortolani decise di dare vita al Decennial Match, un incontro revival tra i giocatori che in quell’epoca d’oro militavano nelle due squadre. Molti di loro, fra cui Kiraly, accettarono con entusiasmo l’invito e il Pala De Andrè ebbe in poco tempo il tutto esaurito.
Kiraly fu anche un asso nel Beach Volley, al quale si dedicò durante l’ultima fase della sua carriera: nel 1996 infatti alle Olimpiadi di Atlanta conquistò una storica medaglia d’oro sulla sabbia in coppia con Kent Steffes, con cui sconfisse Michael Dodd e Mike Whitmarsh in una finale trasformatasi in derby a stelle e strisce. Così Karch Kiraly diventò il primo e rimane tuttora l’unico giocatore di volley ad aver trionfato sia nell’indoor sia nel Beach. Da quel giorno divenne re incontrastato di sabbia e taraflex. E nel 2001 venne eletto dalla FIVB miglior giocatore di pallavolo del ventesimo secolo insieme a Lorenzo Bernardi.
Dopo il suo ritiro Kiraly iniziò la carriera di coach: prima creò una sua Academy, poi nel 2012 divenne primo allenatore della nazionale USA di volley femminile. Il suo primo risultato di prestigio in panchina lo ottenne proprio in Italia, dove nel 2014 trionfò ai Mondiali, superando in finale 3-1 la Cina di Jenny Lang Ping; l’anno successivo conquistò il World Grand Prix. Per aggiungere un’ulteriore ciliegina sulla torta gli manca insomma solo la medaglia d’oro olimpica da allenatore: a Rio dovette accontentarsi del bronzo, ma sicuramente ci riproverà quest’anno a Tokyo. Centrarla vorrebbe dire aggiungere un’ulteriore pagina a una storia che è già leggenda. In ogni caso Karch Kiraly per molti è già un mito inarrivabile. E la sua storia verrà tramandata ai pallavolisti di domani, si racconterà come una bella favola, come un mito.