Di Stefano Benzi
Non so se si possa credere alla predestinazione; sono molto scettico su quelle persone che ti raccontano che hanno deciso di diventare calciatore, o ballerina, o top model, o pilota di Formula Uno quando avevano sette anni. So di giocatrici importanti del nostro paese, di una di loro parlerò a breve, che iniziarono a giocare a pallavolo perché fan del cartone animato di Mila e Shiro. Ma il vero fatto è che non immaginate quanti giocatori di pallavolo siano nati dalla passione per un singolo atleta più ancora che dall’amore per un club. Qui la predestinazione non c’entra: entrano in ballo dedizione, ostinazione, volontà.
Dove voglio andare a parare… Molti anni fa arrivò in Italia un giocatore che per me era un idolo assoluto, un fuoriclasse. Ho sempre amato le teste un po’ matte e non convenzionali: nel calcio impazzivo per giocatori come Overmars o Van der Vaart. La pallavolo mi ha attaccato una incurabile dipendenza da Lloy Ball: cresciuto a Fort Wayne, in Indiana, uno Stato che non aveva nemmeno la rappresentativa di pallavolo, Lloy cerca di giocare dove e quando capita. D’estate, presso un camp gestito dal padre, e poi finalmente al college dove tuttavia non esisteva un programma di volley e lui risultava tesserato per la squadra di basket: l’altezza lo aiutò molto in uno sport che fu quasi costretto a praticare per necessità. Quando arrivò in Italia dopo quasi quattro anni in Giappone, Lloy era ancora un diamante grezzo: forte ma soprattutto imprevedibile. Il suo opposto, Roman Iakovlev, uno che avevo soprannominato Attila tanto erano violente le sue schiacciate, non rideva mai. Solo quando Lloy chiamava uno schema “falso” e gli alzava la palla sulla mano destra esprimeva un ghigno feroce.
Lloy aveva diversi tatuaggi: siccome non voleva perdere l’indirizzo di casa, dopo i soldi e i tanti campionati vinti all’estero, si fece tatuare sull’avambraccio il codice a barre con l’indirizzo postale di casa. Il suo chiodo fisso erano le Olimpiadi: quando lo intervistai per l’ultima volta, era il 2004 e stava per lasciare Modena, mi disse… “Voglio portare agli Usa una medaglia alle Olimpiadi, sarebbe una spinta decisiva per tutto il movimento. Non posso farlo da solo ma i giocatori di qualità ormai ci sono e, cosa più importante, ci sono i giovani”.
Sulle spalle, proprio in mezzo alle scapole un altro tatuaggio eloquente: i cinque cerchi di Olimpia. Mi sembrava un bel sogno destinato a restare tale.
Nel 2008 gli USA vincono la medaglia d’oro maschile e un argento femminile oltre a due ori nel beach volley con le straordinarie Kelly Walsh e Misty May in campo donne e Todd Rogers e Phil Dalhausser in ambito maschile. Ad alzare il trofeo olimpico più importante c’è lui, Lloy Ball, il mio idolo, capace di continuare a giocare fino a quarant’anni e probabilmente destinato ad forgiare il movimento in Indiana, ora che ha molto tempo libero: “Gli abitanti dell’Indiana sono soprannominati hoosiers – mi aveva detto una volta – non è un’offesa ma serve a ricordarti che nel tuo paese ci sono decine di migliaia di ettari coltivati, Indianapolis e poco altro. Hoosiers suona un po’ come dire sempliciotti, burini: personalmente sono molto orgoglioso di questa definizione. Siamo gente di campagna, umile. Ma lasciami dire che se anche solo un ragazzo deciderà di giocare a pallavolo perché vede me o la nostra nazionale e si appassionerà, sarà un successo più grande di qualsiasi trofeo”.
Toh… guarda un po’: Micah Christenson, nato e cresciuto alle Hawaii, non impazziva per il surf ma per la pallavolo. E davanti alla tv e a quel trofeo alzato c’era anche lui, 15 anni, studente della high-school di Kamehameha, obbligato a giocare anche a basket purché si realizzasse anche un programma di pallavolo. E quei cinque cerchi anche Micah, reduce dal suo primo scudetto italiano, li ha stampati in fronte.
Un paese che non ha un campionato professionistico di volley e che nella maggior parte delle scuole e università non ha nemmeno un programma da dedicare agli studenti appassionati di questo sport che vince tanto e crea campioni. La cosa dovrebbe fare pensare: anche perché dal 2008 a oggi i tesserati ai programmi di pallavolo statunitensi che hanno meno di 19 anni sono diventati il quintuplo.