Quando l’indisponibilità di una grande atleta diventa chance per una giovanissima

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Di Stefano Benzi

Il mondo dello sport è pieno di gufi: ci sono allenatori che “corveggiano” da media distanza sui propri colleghi in difficoltà e non aspettano altro che il posto in bilico venga assegnato a loro. Per i giocatori è ancora peggio: a volte per avere un posto in squadra non puoi far altro che aspettare un infortunio di lungo corso e fare le scarpe al compagno incerottato. Per la verità non ho mai conosciuto un giocatore che si augurasse il male fisico del suo diretto concorrente, ma è inutile sottolineare che queste cose capitano e a volte rappresentano una svolta epocale.

La Russia a marzo ha saputo di dover fare a meno di Tatiana Kosheleva, bloccata per nove mesi da un gravissimo infortunio ai legamenti del ginocchio; il Brasile è martoriato di infortuni e incidenti e anche l’Italia ha avuto i suoi problemi con i crack di Bosetti e Folie. Ma quando in Turchia si è registrata l’indisponibilità di Naz Aydemir si è gridato alla sciagura. Naz ha 28 anni, non è solo l’alzatrice del Vakifbank (di Giovanni Guidetti, che è anche CT della nazionale) ma la giocatrice simbolo di tutto il movimento turco e viene considerata la più forte alzatrice turca di tutti i tempi: Naz è nata con il DNA della grande atleta, arriva da una famiglia di fuoriclasse. Suo cugino Gundogan gioca nel Manchester City, ha diversi nipoti e cugini tutti votati alla pallavolo e suo marito è Cenk Akyol, nazionale di basket. A 12 anni vinse il primo trofeo internazionale con una squadra under 15 e a 13 lo rivinse conquistando anche il titolo di miglior alzatrice. Una predestinata.

L’obiettivo della Turchia era quello di salire sul podio del mondiale per la prima volta nella sua storia ma anche Naz aveva un obiettivo in programma… un bimbo. E quando in primavera è rimasta incinta a Guidetti non è toccato far altro che prenderne atto: il lieto evento è atteso in inverno.

Presa in considerazione la disponibilità di alzatrici del campionato turco e all’estero il tecnico italiano ha cominciato a provare la giovane promessa Cansu Ozbay, una giovanissima cresciuta come seconda nel Vakifbank e nel mito di Naz, capace di imparare tanto parlando pochissimo. La trasformazione del bozzolo in farfalla è stata uno spettacolo: la ragazzina ha vinto il campionato turco ed è stata eletta miglior alzatrice della finale, ha vinto il titolo di Champions League, condiviso con Naz, poi ha conquistato il titolo di miglior alzatrice nell’Fivb Volleyball Nations League e nel Volley Masters in Montreux. Ogni tappa la vede un po’ più sicura, un po’ più leader. Con lei in campo la Turchia è una squadra che mantiene le sue fragilità, che commette molti errori: ma è anche divertente, a tratti davvero molto spettacolare e spregiudicata.

Naz Aydermir le scrive sempre prima di ogni partita messaggi di incoraggiamento e qualche suggerimento. Guidetti, con intelligenza, si coccola la ragazzina tenendola sotto pressione ma lontano da stampa e curiosità malsana.

Di lei si sa poco, a parte che ha due mani d’oro e un gusto per l’imprevedibilità che è tipico dei grandi alzatori: una ragazza con la testa sul collo, tutta casa e palestra; niente selfie scollacciati, profili social inattaccabili, una passione per la pallavolo vera, autentica. E ora anche una grande occasione con la benedizione della sua madrina, Naz Aydemir, e di un allenatore – Guidetti – che non si è mai fatto sorprendere dalle sorprese e che ha ancora il piacere di battezzare su un campo di pallavolo, meglio se autorevole, giocatrici che possano diventare veri fuoriclasse.

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Hanno rubato la medaglia a Franco Bertoli, la mano di pietra: non si ruba nei musei

Le storie di Stefano Benzi

Di Stefano Benzi

Diciamo la verità… quando quella lontana estate del 1984 si diceva “c’è la pallavolo, dove la andiamo a vedere”? Non eravamo molto consapevoli: un po’ perché quella non era ancora la generazione dei fenomeni che sarebbe arrivata di lì a qualche anno e un po’ perché eravamo ancora ubriachi del Mondiale di calcio vinto nel 1982. La pallavolo fino a quel momento era un parente povero e poco considerato: i canali televisivi che potevano trasmettere sport erano esclusivamente quelli della Rai. E dunque due… e mezzo: Il resto lo scoprivi alla spicciolata un po’ come il tennis o il nuoto. Eravamo impazziti per Novella Calligaris o per Adriano Panatta quando arrivò alla finale del Roland Garros. Ma il concetto di virata, di rovescio e di slide non erano per tutti. Per non parlare della vela: una volta ogni tot di anni ci ricordavamo di essere un popolo di navigatori per via di Azzurra, Luna Rossa o del Moro e si faceva la notte in bianco. Ma il senso di “cazza la randa” o di “bolina” non ci è ancora del tutto chiaro.

Per la squadra di pallavolo del 1984 non eravamo preparati: chi se l’aspettava una prodezza del genere. All’epoca lavoravo già e ricordo perfettamente uno dei miei capi – disperato – alle prese con un pezzo e un titolo sbraitava da infarto: “Come diavolo si dice – urlava in redazione – schiacciata o smash?”

A Los Angeles uno dei supertestimonial era Roberto Duran, straordinario pugile panamense che viveva in California e che era cresciuto al Chorillo, nella favela della Casa de Pedra. Da qui il suo nome: “Mano de Pedra”. Nel 1984 era all’apice: si era frantumato una mano combattendo contro Marvin Hagler (un vero animale da ring) dunque alle Olimpiadi faceva il personaggio e presenziava a tutte le gare più interessanti. Vedendo la squadra azzurra contro il Canada Duran disse… “Esta sì es una mano de pedra….”

La mano di pietra era quello di Franco Bertoli: i giocatori del Canada confessarono che quando Dall’Olio apriva lo schema su di lui la gara era a chi si spostava prima da una parte per evitare la botta. Era la generazione dei geometri: mi piace chiamarla così perché erano giocatori straordinari, certamente non ricchi, ma di feroce determinazione e di grande coraggio. Furono loro a porre basi di quanto sarebbe arrivato dopo.

Ottennero uno storico terzo posto, la prima medaglia olimpica della pallavolo italiana dopo una semifinale persa e giocata a testa alta contro il Brasile. Bertoli ha usato il granito per vincere – vado a memoria – anche sette titoli italiani, due coppe campioni e mi pare cinque Coppa Italia. Poi ha fatto l’allenatore, ricordo delle belle interviste con lui a Roma nel 2000, il dirigente e l’amministratore pubblico. Appassionato di statistica, è un grande studioso di numerologia. Un uomo simbolo cui hanno fatto una cattiveria: qualcuno si è introdotto in casa sua e gli ha svaligiato l’appartamento portandosi via anche la medaglia di bronzo di Los Angeles 1984. Anche se fosse d’oro il suo valore sarebbe davvero minimo: le medaglie sono placcate e simboliche, hanno un peso solo per chi le ha vinte e per chi eventualmente le colleziona.

Cari signori ladri, a Natale, siamo tutti più buoni… cogliete una buona occasione per fare una bella figura. Fate un pacchettino, mi raccomando con tanta bella carta per evitare gli urti, e spedite il tutto a Franco Bertoli, presso C.O.N.I. Largo Giulio Onesti 1 Roma. Là sapranno come recapitarla a una mano di pietra che per vostra fortuna non avete trovato in casa mentre stavate facendo pulizia. Perché Bertoli ha sessant’anni ma se li porta alla grande; è di Udine – gran testone – è 1.92 per novanta chili di muscoli e le mani di granito le ha ancora. Io uno così lo vorrei avere tutta la vita dalla mia parte.

E poi, che ve ne fate di una medaglia che non meritate?