“Mi piacerebbe trovare le parole giuste, ma non le ho”. Così si apre l’editoriale sul Corriere Torino di Mauro Berruto, ex CT della nazionale italiana e deputato del Partito Democratico, il giorno dopo la tragica scomparsa di Julia Ituma. Un’ammissione di impotenza di fronte a un evento incomprensibile: “Non trovo parole, strumenti, capacità o forza in nessuno dei miei ruoli. Né da politico, né da allenatore, né tantomeno da padre di due ragazzi che hanno l’età di Julia, riesco a sostituire con delle parole quel dolore così profondo che talvolta chiamiamo ‘sordo’, forse proprio perché non vuole farsi sentire”.
Berruto, però, qualcosa da dire sulla vicenda ce l’ha eccome: “Quando muore, in questo modo, una ragazza come Julia, l’unica cosa da fare è interrogarsi. Perché di Julia avremmo dovuto parlare, a lungo, per le sue imprese sportive. Non c’era un solo addetto ai lavori che non fosse pronto a scommettere su di lei. Forse troppo spesso siamo capaci di vaticinare il futuro, ma non siamo in grado di leggere il presente. Quando una vita si interrompe a 18 anni, nel pieno del suo potenziale, abbiamo una sola scelta. Interrogarci. Noi adulti, genitori, sportivi, allenatori, politici, giornalisti, insegnanti. Noi che dovremmo non solo costruire, ma difendere il desiderio di futuro dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, noi che siamo chiamati a dare vita a quelle agenzie educative, come la scuola o lo sport, che dovrebbero essere una rampa di lancio verso l’età adulta”.
Interrogarsi, dunque, “sul nostro ruolo di istruttori oppure di educatori. Perché istruire ed educare rappresentano due gesti che si muovono in direzioni opposte. ‘Istruire’ è il gesto di chi riempie un contenitore, ‘educare’ è quello di chi costruisce intorno a un giovane le condizioni affinché, indipendentemente dal tipo o dall’assenza di talento, possa esplodere il suo potenziale. Quest’ultimo è il nostro compito, anzi, il nostro dovere costituzionale”.
“Non è mai stato facile e non lo sarà mai – conclude amaramente Berruto – se ogni generazione si è sempre lamentata di quella successiva, identificando nei giovani segnali di decadimento o mancanza di rispetto, la nostra generazione rappresenta il primo terribile segnale di discontinuità della storia. C’è qualcosa di profondo che non va. Non in loro, ma in noi”.
(fonte: Corriere Torino)