Di Paolo Cozzi
Mi piacerebbe soffermarmi su quello che nella settimana post europeo è diventato l’argomento clou: i giovani, bisogna farli giocare? Devono essere schierati sempre in campo? Come farli crescere al meglio?
Giornalisti, allenatori, tifosi: sulla carta stampata e nei vari siti specializzati ho letto veramente tanto interesse per l’argomento trovandomi in linea su talune teorie e meno su altre.
Non ho certo la pretesa di svelare la verità, o professarmi tuttologo in materia, ma con questo mio articolo voglio solo portare la mia esperienza diretta di atleta professionista, ma soprattutto giovane che si è trovato titolare a 20 anni in serie A disputando in quella occasione la Finale Scudetto. Magari queste brevi riflessioni potranno essere prese come spunto da chi in questi mesi dovrà decidere le strategie migliori per rilanciare il movimento maschile, in cerca disperata di nuovi talenti.
Facevo parte di un progetto iniziato nel 1995/1996 con circa 40 giocatori (tra i vari Sintini, Sottile, Gavotto, Desiderio, Bari, Saraceni, Tencati), la maggior parte di quel gruppo arrivava principalmente da tre squadre all’epoca leader nei settori giovanili come Treviso, Cuneo e Roma. Ricordo bene che per me che arrivavo dalla piccola società del Vittorio Veneto Milano scontrarmi subito con quel gruppo di palestrati e ultra inquadrati ragazzi fu uno shock tremendo. La mia cultura pallavolistica era zero rispetto a loro, ma anche negli anni a seguire ho preferito rimanere a giocare in serie B nella mia società e fare esperienze di campo con giocatori e avversari più anziani ed esperti di me (a volte con 20 anni di più) piuttosto che fare tanta panchina e allenamenti in Serie A.
E qui ha inizio il mio primo pensiero. Sicuramente i vivai delle squadre di serie A sono il bacino principale per i campioni del futuro, e su quello mi auguro che si continui ad investire con acume ed intelligenza. Un bravo allenatore di giovani (penso a Zanin a Treviso, Liano Pietrelli a Cuneo, Eccheli su Milano) non deve essere un costo per le società, ma una risorsa, un prezioso investimento quanto il cartellino di un top player. Cosa non facile in un periodo di vacche magre e sponsorizzazioni ridotte, ma come spesso succede nelle aziende, se durante una crisi non si ha il coraggio di guardare a lungo termine, finiamo per vivere solo nel presente tirando a campare con i pochi mezzi che abbiamo.
Tornando alla mia carriera, a 18 anni Milano si ritrova in A2 dove parto come quarto centrale dietro a un buon centrale italiano e due stranieri. La sorte mi aiuta e per problemi burocratici mancano i transfer degli stranieri, gioco titolare le prime tre gare, discretamente, e la società taglia uno straniero.
Secondo ragionamento: le occasioni, nello sport, passano sempre, molto più spesso di quello che crediamo. Bisogna essere pronti a coglierle e per essere pronti bisogna allenarsi duramente, con il fisico ma soprattutto con la mente. Se avessi sprecato quelle tre partite, probabilmente tante cose sarebbero cambiate nella mia crescita.
Terzo punto: dopo le prime tre partite lascio il campo al francese, ma dentro di me sento crescere una consapevolezza, una forza, una voce che mi dice “tu hai sempre giocato, non esiste che ora te ne stai seduto a marcire, la serie A2 hai dimostrato di poterla tenere, dimostra che puoi farlo una stagione intera” e nel volgere di un mese mi prendo il posto da titolare. Tradotto vuol dire che il fuoco sacro della passione, della voglia, dell’impegno deve nascere dentro l’atleta. Non può giungere da un aiuto esterno che magari agevola il giovane con regolamenti ad hoc. Senza sudore per la conquista degli obiettivi non c’è crescita.
Dopo due anni di A2 dove vinco il premio come miglior giovane, arrivo in A1 e mi ritrovo come coach un certo Montali, che di far giocare un ragazzino in erba, tecnicamente grezzo e tatticamente “under construction“, proprio non gliene potesse fregare di meno.
E qui arriva la quarta riflessione. Montali mi ha sì creato come giocatore, dandomi certezze tattiche e caricandomi di lavoro, ma se non avessi avuto un secondo allenatore con i fiocchi (all’epoca Max Dagioni), che ogni giorno mi prendeva e mi aiutava con lavori extra a crescere tecnicamente trasmettendomi fiducia, sarei stato fagocitato in breve tempo e rispedito in panchina. Non voglio puntare il dito contro nessuno, la realtà pallavolistica di oggi è figlia di una situazione economica conosciuta, ma quanti secondi allenatori oggi tra SuperLega e A2 potrebbero permettersi di crescere un giovane con sicurezza, precisione ed esperienza come capitò a me? Quanti hanno anni di esperienza con giocatori di livello, tali da poter subentrare, coadiuvare e all’occasione sostituire il primo allenatore? Quanti Dagioni, Tubertini, Caponeri ci sono in giro per l’Italia? Io spero tanti, ma qualche dubbio ce l’ho..
Tornando alla mia storia, quell’anno Montali riesce a comprare un altro centrale (Milone), destinato in breve tempo a finire anche lui in panchina. Perchè in quella squadra ho avuto dei compagni eccezionali (Grbic, Milinkovic, Zlatanov, Vergnaghi, Bonati) che non mi hanno mai fatto pesare la mia giovane età e le mie lacune pallavolistiche, ma soprattutto ho avuto due centrali (Held vice-campione Olimpico e Cavallini) che ad ogni riunione tecnica, ad ogni allenamento mi fornivano la loro attenzione, coinvolgendomi, spiegandomi, regalandomi il loro immenso know how pallavolistico.
E in questa direzione voglio finire. Per prima cosa non si possono fare squadre di giovani e basta, e dicendo questo penso anche, ma non solo, alle varie esperienze dei Club Italia (e parlo per esperienza diretta visto che mi è capitato di dare una mano al Club Italia femminile a Milano), perché i giovani per crescere hanno bisogno dei “vecchietti” (motivo per cui Lucchi mi chiese di dare una mano al Club Italia stesso), devono assorbire da loro cosa voglia dire fare pallavolo. Parlare di pallavolo con loro, essere guidati nel mondo dei professionisti. Certo non tutti possono essere figure guida solo per via della carta d’identità, ma io sono sicuro che senza Held e Cavallini sarei stato un centrale meno completo, più ignorante.
Ultimo aspetto, non meno importante degli altri, è stato avere davanti a me dei giocatori più forti, da rincorrere in una continua sfida a migliorarsi. Detta in gergo sportivo, avere un compagno più forte ed esperto di me mi ha spesso costretto ad alzare la mia asticella, in una continua spirale a crescere.
Ecco cosa mi spaventa tanto quanto sento parlare dei giovani che devono stare in campo per forza, a tutti i costi…. Così facendo si toglierebbe loro quelli che per mia esperienza personale ritengo i migliori stimoli per la crescita. La fame, la voglia di arrivare, di dimostrare di essere meglio del mio compagno, di non stare seduti a marcire in panchina ma essere protagonisti.
I giovani devono giocare, ma non per scelta politica, bensi perché se lo meritano, perché si impegnano, perché ci mettono la testa oltre che il fisico, perché si migliorano nel corso dell’anno.
La vittoria più grande non è la medaglia d’oro, ma conquistare i propri meriti sul campo, non certo a tavolino.