Di Paolo Frascarolo
Allenatori carichi come lui, è difficile trovarli. Personaggi come lui, invece, andrebbero inventati nel nostro sport. Ma guai, dico io, a fare dei complimenti: Roberto Piazza, per sua stessa ammissione, è un allenatore a cui “piace mettersi pressione da solo la mattina appena sveglio“.
Dopo la fine dell’avventura con Modena, a cui ha contribuito a portare in bacheca una splendida Supercoppa, Roberto Piazza quest’anno è ripartito dalla Polonia, sponda Belchatow. Un campionato dall’altissimo tasso tecnico, che vede la presenza di numerosi tecnici azzurri: Zanini, Gardini, Anastasi, Santilli, Sernotti e Storti. Tanti, sì: vorrà dire qualcosa?
Abbiamo voluto rivolgergli qualche domanda sul tema del Professionismo, la visione del campionato italiano all’estero, e tutte le sue possibili sfaccettature a 360°.
Qual è la maggiore differenza tra il campionato italiano e quello polacco?
“Non c’è una grande differenza a livello di gioco, ma sicuramente si differenziano nella cultura sportiva. Qui l’allenatore è visto maggiormente come una figura centrale, da cui si passa per tutte le scelte. Questa componente in Italia è vista in maniera differente”.
Per quale ragione le squadre estere cercano così tanto gli allenatori italiani?
“All’estero c’è una considerazione molto alta dei tecnici italiani, ma non solo nel volley. Basta guardare gli allenatori di altri sport come il calcio e il basket. Portiamo una cultura sportiva che rappresenta ‘forse’ un valore aggiunto. C’è una grande considerazione della scuola italiana, ed è sempre stato così”.
Cosa manca al volley italiano per avere maggiore visibilità?
“Sicuramente ci manca di essere riconosciuti come professionisti. Molto spesso la politica non è pienamente a conoscenza di cosa voglia dire fare sport: la professionalità che noi mettiamo deve essere riconosciuta. A questo mondo tutto passa attraverso i soldi. Ma attenzione: se si vuole risolvere la problematica, una soluzione la si può trovare”.
Cambierebbe qualcosa nella proposta dei calendari Europei?
Il calendario è troppo ricco: le competizioni internazionali spesso portano a iniziare i campionati nazionali veramente tardi. A mio avviso si deve dare molto spazio ai play-off, che sono la fase più seguita in cui la gente si diverte per lo spettacolo offerto. Io, per esempio, li giocherei sempre 4 su 7. E per farlo è ovvio che non bisogna giocare a 16 squadre. Siamo spettacolo o siamo sport? Questo bisogna chiedersi”.
Si possono coniugare le due cose?
“Si può, ma inevitabilmente si rischia di non accontentare tutti. Bisogna fare delle scelte, anche se a volte non piacciono perchè impopolari”.
Per esempio?
“Scelte rischiose. Ti cito un altro esempio. Non è normale che un giocatore italiano, in quanto Italiano, debba avere dei vantaggi. In ambiti aziendali, per esempio, se c’è un professionista straniero migliore, lo si può assumere. Lo stesso ragionamento per meriti sportivi deve essere fatto nell’ambito della pallavolo”.
Rispetto agli ultimi anni, vede un campionato Italiano diverso?
“Si è tornati a investire soldi nella pallavolo. I giocatori importanti che vengono nel nostro campionato lo scelgono non solo per soldi ma anche per l’alto valore formativo e tecnico. Come quando negli anni ’90 tutta la Nazionale olandese era venuta a formarsi proprio nel nostro torneo”.