Di Redazione
Una bellissima storia di sport giunge da uno degli ultimi grandi allenatori della Nazionale Italiana, Mauro Berruto, che nella versione digitale dell’Avvenire (clicca qui per il contenuto originale), ha raccontato un toccante aneddoto della sua esperienza a Montichiari:
“Nel 2008 allenavo la squadra di pallavolo Montichiari, storico club del campionato di serie A1. Lì vicino, a Castiglion delle Stiviere, sorgeva un Opg, agghiacciante acronimo che sta per Ospedale psichiatrico giudiziario. Chiusi definitivamente nel 2015, gli Opg altro non erano che i vecchi manicomi criminali. Un giorno venni avvicinato da alcuni dei responsabili della struttura. Mi chiedevano se volessi dedicare un po’ del mio tempo libero per tentare un esperimento con alcuni dei loro ospiti, uomini di età e condizione psicofisica molto diversa, tutti con storie tragiche alle spalle. La prima cosa che chiesi fu quella di poter visitare il luogo dove erano rinchiusi. Mi ci portarono, una mattina di cui ricordo ancora perfettamente ogni dettaglio, ma più di tutto il buio. Urla, rumori, sguardi non raccontabili, ma soprattutto il buio. Fu un’esperienza pazzesca che mi fece venire un’idea: quella di proporre la pallavolo come, diciamo, terapia. C’entravano l’idea del passaggio, la costruzione di una squadra, c’entrava (moltissimo) l’essere uno sport dove è impossibile il contatto fisico. Insomma, mi sembrava potesse funzionare. Con un ma. Il mio ma, era legato al luogo dove ci saremmo allenati. «La faccio – dissi – ma dovrete convincere il Giudice a fare in modo che questa attività si svolga nel Palasport di Montichiari». Un Palasport di serie A, bellissimo. Un Giudice particolarmente illuminato (la luce!) accordò quel permesso. Volevo creare intorno a quegli uomini delle condizioni di eccellenza e presi in prima persona l’impegno di far allestire il Palasport, ogni lunedì (giorno di riposo del mio club), come se ci fosse una partita di serie A. La rete, quella bella, i palloni ufficiali, le magliette di allenamento preparate negli spogliatoi, tutte le luci (la luce!) accese. Insomma tutto era perfetto, pulito, ordinato, luminoso. Ci allenammo per circa sei mesi pieni di emozioni che crescevano di allenamento in allenamento. Mai una defezione, mai una rinuncia. Al termine organizzammo una partita contro dei ragazzi di una scuola superiore di Montichiari che terminò, addirittura, con la vittoria di un set, dove uno dei miei “atleti” fece 7 punti consecutivi in servizio. Che cosa era successo? Ero forse io stato particolarmente bravo a insegnare la tecnica pallavolistica a signori di mezza età, sovrappeso e sottoposti a trattamenti farmacologici pesantissimi? Assolutamente no. Io, in qualità di allenatore di una squadra di seria A, ero parte della coreografia. La differenza lo aveva fatto il luogo, la sua bellezza li aveva trasformati. Il risultato più clamoroso arrivò qualche settimana dopo. Un report indicava che le necessità di psicofarmaci di quelle persone, al termine del progetto, erano clamorosamente diminuite. Quella notizia mi fulminò, letteralmente. Dopo sei mesi di allenamenti assumevano una quantità di psicofarmaci vicina alla metà rispetto a quando avevano iniziato. Era un risultato oggettivo.
Non ho mai più guardato allo sport con gli occhi di prima, dopo quei mesi. Avevo imparato che la bellezza di ciò che ci circonda incide sul nostro comportamento. È quel principio che scatta quando entriamo in uno stadio, bello, pulito, funzionale e ci comportiamo da tifosi civili, mentre se per guardare una partita ci fanno entrare in una gabbia (sì, in Italia esistono ancora degli stadi con le gabbie per i tifosi ospiti) evidentemente c’è qualcuno che ci sta autorizzando a comportarci come animali. Ho imparato, grazie a quell’esperienza, l’oggettiva possibilità dello sport di creare bellezza e meraviglia.
La più straordinaria delle lezioni me l’ha insegnata la peggior squadra che io abbia mai allenato”.